1)                        GLI ANGELI DELL'ARTE                                                                              ( 13/04/2020 )


In un momento segnato dalle tante difficoltà create dalla pandemia di Covid-19, in una stato di emergenza sanitaria, con segnali sempre più drammatici lanciati dal mondo economico, il mondo dell’arte, della cultura dello spettacolo subisce un brusco arresto.
L’articolo seguente ha lo scopo di poter riprendere un parallelo storico, come quello apportato dagli angeli del fango, che salvarono la storia di Firenze dopo l’alluvione dell’Arno del 1966.

Angeli ieri e Angeli oggi

Il 6 Novembre 1966: il cuore di Firenze fu devastato.
Gli occhi del mondo guardarono lo strazio e il disastro provocato dall’eccezionale inondazione delle acque dell’Arno.
Una furia della natura senza precedenti che, in poche ore, sfregiò il patrimonio artistico di una delle città più belle del mondo: Firenze.
Quadri, statue, libri, pergamene, mobili: tutto ciò che era conservato ai piani terreni, cantine e depositi sotterranei fu sommerso da un mix micidiale di acqua, fango e idrocarburi.
Il quartiere di Santa Croce soffocò sotto 6 metri di acqua: i suoi inestimabili capolavori, racchiusi nella basilica di Santa Croce e nella Biblioteca Nazionale, subirono danni irreparabili.
Icona dell’evento divenne, ironia della sorte, il volto sfregiato del Cristo Crocifisso dipinto su tavola da Cenni di Pepo, detto Cimabue.
In ventiquattro ore accorsero, nel capoluogo toscano, donne e uomini mossi da un unico denominatore: Amore, con le “A” maiuscole, per l’Arte.
Furono chiamati “gli Angeli del fango”.
Angeli inzuppati di e nel fango che, incessantemente, salvarono il patrimonio artistico, la testimonianza storica di Firenze e, con essa, di tutta l’umanità,
Dentro al cuore di ogni Angelo del fango c’era una piccola ma preziosa Firenze.
Ora, in questo difficile momento, abbiamo bisogno anche dell’’Arte, perché incanto del nostro umano conoscere, perché ricerca della bellezza interiore alla persona stessa.
Oggi, l’individuo affannato, conquistato dai progressi tecnologici, dominato dalla fretta, zittito da rumori a lui esterni e circondato da emissioni tossiche, può dimenticarsi della Bellezza?
La Bellezza dell’Arte aspetta, di nuovo, gli Angeli, donne e uomini che hanno e avranno il coraggio di immergersi, non più nel fango, ma nell’’incanto dall’Arte italiana, custodita nei luoghi più belli che il genio italiano ha saputo innalzare in una terra unica qual è l’Italia.
Angeli, quando questa pandemia vi lascerà liberi di volare di nuovo, non dimenticatevi di far brillare l’arte italiana.
La bellezza ha sempre e avrà bisogno di voi.
Non dimenticatelo.
Grazie Angeli.
Carlo Maria Pelatti


2)        ANCHE SE SIAMO RINCHIUSI  POSSIAMO                        ESSERE LIBERI             (28/04/2020)


“Questa mattina, dalla finestra, ho guardato lungo la campagna prima del sorgere del sole, e non c’era che la stella del mattino, che sembrava molto grande.” (Lettera a Theo. 2 giugno 1889).
Nella primavera del 1889, Vincent Van Gogh, in preda alle sue più frequenti crisi, decise, volontariamente, di internarsi presso la clinica per alienati di Saint-Paul-de-Mausole nei pressi di Saint Rémy.
Ha inizio così la nascita di uno dei capolavori pittorici più belli dell’Ottocento: “Notte stellata”.
Un quadro di pura immaginazione?
Vincent Van Gogh, un visionario che dipinse una nuova notte?
Era l’alba di un nuovo e caldo giorno del giugno del 1889.
La sua finestra, ferrata con sbarre di sicurezza, ma nel quadro spariscono, divenne apertura su un immaginario paesaggio notturno sovrastato da turbini cosmici: solo un grosso cipresso interrompe la nostra visione del cielo.
Il cielo: dagli studi astronomici e cosmografici, tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno del 1889, il pianeta  Venere, la stella del mattino, offrì la sua massima luminosità, facendo apparire le sue dimensioni più grandi del suo reale diametro.
La grande spirale rappresenterebbe una precisa entità cosmica, la galassia M51, direttamente collegata ad una entità di dimensioni più ridotte, la M51B.
Gli astronomi la documentarono con diversi disegni riprodotti su libri che, con molta facilità, furono sfogliati e osservati dallo stesso Van Gogh durante il suo soggiorno parigino.
La notte di Vincent vibra, pulsa con moto tortuoso: immagine che gli ricorda le onde dei campi di grano provenzali spettinati dal soffio impetuoso del Maestrale.
Un cielo solcato da linee curve e sovrastate, dipinte con pennellate che seguono lo stesso movimento del cielo illuminato da astri divenuti piccoli soli.
La luna stessa, di un solo spicchio e sottolineata da luccicanti centri concentrici, anticipa quel sole che tra breve farà svanire il sogno.
Infinito, natura, luce e ombre: così Van Gogh colmò il suo desideri d’infinito.
Una notte piena di stelle, specchio del mistero del cosmo perché “essere vivente in perpetuo movimento”.
Le linee di composizione del quadro si  intersecano tra verticali, cipresso e alto campanile dell’immaginario villaggio, e oblique dell’orizzonte, simili alle onde del mare.
La terra è ancora ammantata di buio: solo le poche finestre, illuminate al loro interno, tentano di squarciare l’ombra della notte.
Il protagonista dell’opera è il colore nel voluto contrasto cromatico, giallo e blu, tonalità scelte per compiacere il possibile acquirente.
Vincent si allontanò dal pittorico, dal dato naturale e raggiunse le vette della sua più alta espressione fatta di sole linee e colore: una divina immaginazione.
Se un uomo rinchiuso in una stanza di un sanatorio, dove la sua unica finestra divenne la sua fuga per la visione libera del mondo, più che mai noi, oggi, chiusi nelle nostre abitazioni, possiamo scegliere di attingere al suo fervore e condividere una notte stellata rivelatrice di INFINITO.
Vincent Van Gogh “Notte stellata” 1889, MOMA, NY
Carlo Maria Pelatti


3)                     HENRI MATISSE: LA DANZA                                                                     (04/05/2020)


INTERVISTA ALL’ARTISTA HENRI MATISSE: LA DANZA
BUONGIORNO MAESTRO MATISSE, LA RINGRAZIO A NOME DI TUTTI I SOCI DI ARCHEO & ARTE PER AVER CONCESSO, IN ESCLUSIVA, UNA INTERVISTA PER SVELARCI I SEGRETI DI UNA TRA LE SUE PIÙ IMPORTANTI OPERE “LA DANZA”.
COM’È NATO QUESTO QUADRO?

Inizierei con il salutare tutti i soci di Archeo & Arte di Vignola.
Com’è nata “la Danza”?
Un mio caro amico, Sergej Scukin, nel 1909, mi commissionò questo quadro per la sua residenza moscovita, pensai, subito, al tema della “joie de vivre” (la gioia di vivere). Ripresi il soggetto da un quadro dipinto tre anni fa, nel 1906: far danzare le persone al ritmo della musica.
Creai un dittico: nel primo quadro la protagonista doveva essere la musica (“La musica” 1910, Hermitage, San Pietroburgo), mentre nel secondo, i danzatori si muovevano al ritmo della canzone che proveniva dal quadro accanto.
PERCHÉ IL TEMA DELLA DANZA?
Ero a Parigi. Una domenica andai ai giardini del Moulin de la Galette, sulla collina di Montmartre. Guardai il movimento di alcuni ballerini che danzavano al ritmo della ‘Faranda’: correvano tenendosi per mano attorno alla scala, avvolgendo, con un nastro, il resto della gente presente.
Tornai a casa e, nel ricordo della festa, dipinsi la mia danza in una tela di quattro metri, canticchiando ancora il motivo della ‘Faranda’, perché volevo che i miei ballerini danzassero ancora allo stesso ritmo.
CHE COS’È PER LEI LA DANZA?
Sentimento, ritmo, energia, inno alla vita!
Il ballo trasmette felicità, quella piena e viva. Solo se questa gioia è condivisa, solo allora sarà vera.
LEI, NEL QUADRO, HA USATO SOLO TRE COLORI, PERCHÉ?
Si, solo tre. Il blu del cielo d’estate del mediterraneo, il verde dell’erba che copre la nostra terra e il rosso dei corpi per dare energia.
Ho usato questi tre colori perché volevo raccontare la forza della vita, il suo movimento, il suo eterno rinnovarsi. Sono cromie pure, selvagge, simili agli accordi musicali.
La musica che anima la vita: è quello che ho voluto esprimere!
Poi bisogna lasciare ad ogni colore il suo spazio per espandersi.
Il colore deve essere libero!
E I DANZATORI?
I cinque corpi condividono, in pose dinamiche, il ritmo.
Il ritmo è il vero protagonista della mia opera. Tutto nella danza è ritmo.
Ho dipinto il frenetico ritmo della vita. Alcuni ballerini hanno la testa inclinata perché ho voluto accentuare il dinamismo acrobatico del movimento.
PERCHÉ I DANZATORI NON FORMANO UN CERCHIO?
Il cerchio è la forma primordiale di immagini ancestrali di energia.
Ma io non volevo questo, non voglio il simbolo della pace e della quiete, tipica del cerchio!
Io ho creato un ovale inclinato, perché il ritmo deve esprimere una selvaggia vivacità.
DUE MANI DEI DANZATORI NON SI TOCCANO
È il movimento frenetico che unisce il rapporto con gli altri danzatori.
È tanto contagioso quanto irresistibile I due corpi, dei danzatori, sembrano lanciarsi l’uno verso l’altro.
Le mani non si toccano. Sarà lo spettatore a decidere: o si unirà alla Joie de Vivre insieme agli altri o lascerà che questa occasione passi invano. Prendere o lasciare! Lo dica ai suoi amici, lo dica a tutti!
La mia danza deve coinvolgere tutti!
Tutti possono ballare sulle note della vita! La vita è colore, è gioia, è unica, è libertà!
Una volta uniti... sarà difficile tornare come prima!
La gioia di vivere è tutto!
Carlo Maria Pelatti


4)                                 CLAUDE MONET                                                                                (18/05/2020)


 SOGNO

L’ultima persona se ne andò.
Il vecchio pittore ritornò padrone del paradiso.
Indossò il suo grande cappello, s’infilò i grandi stivali verdi e s’incamminò lungo il roseto.
Si recò al suo luogo preferito: la sommità del ponte giapponese.
Rimase là, da solo, immerso nell’aria, sospeso tra luce e acqua, quella luce che non aveva mai smesso di corteggiare, d’inseguire, di ammirare.
Appoggiò le mani sul legno del parapetto e guardò il vuoto davanti a sè.
I raggi del sole gli scaldarono il viso coperto dalla lunga barba bianca.
I suoi occhi, spenti dalla doppia cataratta, si deliziarono di ciò che non vedeva più.
“Quando ero bambino mi piaceva camminare davanti al mare. Ho sempre cercato l’acqua.
All’inizio nessuna apprezzava la mia pittura, la definivano ‘abbozzi’.
Mi ricordo le vignette satiriche che venivano pubblicate sui giornali!
E pensare che ho dipinto il mondo fatto di ponti, di ferrovie, di fabbriche, di circoli navali.
Era il mondo che cambiava, il mondo dopo la fine della guerra contro la Prussia.
Ho sofferto la fame, ho vissuto a fianco della miseria ma, non ho mai rinunciato a vivere il mio sogno.
Creare la luce dipingendo l’aria!
Quell’aria che adorna la casa, il corso della Senna, i pioppi, i covoni, le facciate delle cattedrali: ed ora tu, il mio stagno!
Ogni creazione è superflua, depurata da ogni realtà. La rugiada della luce si posa su ogni perfezione.
Oh..., come vorrei essere stato lì, di fianco a Dio, nell’atto primordiale dove accese la luce sul suo sogno! Proprio in quel preciso attimo, quello è nessun altro!
Aprire gli occhi sull’Eden, per la prima volta.
Ammirare la luce che danza da una parte all’altra del paradiso!
Io non dipingo ciò che è fermo, ciò che resta, ma il tempo padrone di un soffio di luce.
L’istante che svanisce ma che s’imprime, per sempre, nella memoria del cuore.
Credevo di aver prestato tutto me stesso alla natura, ma mi sbagliavo! Era Lei che cercava me!
Ho dipinto il suo credo di luce, ho scoperto una pittura che, per essere chiamata così, deve perdersi all’atto della creazione.
La superficie dell’acqua divenne cielo e il cielo si perse nell’acqua.
Icona dove inizio e fine si cercano e si annullano reciprocamente.
Ogni giorno una tela, ogni giorno la luce, ogni giorno l’aria, ogni giorno sempre differente.
E i miei quadri?
Divennero spazi dove trovare libertà.
Tutti cercano le ninfee, ma pochi guardano le nuvole riflesse sullo specchio dell’acqua.
Ho voluto e voglio, ancora, educare a scoprire l’emozione davanti a ciò che c’è ma, che i più, non vedono.
Io non vedo. Vedo ciò che è importante: l’indelebile, l’emozione, lo stupore, il sogno, ormai vedo solo questo! Solo questo.
Gli altri è solo pittura!
Ho sacrificato la mia vista per cercare la luce nel fondo dello specchio d’acqua, e cosa ho trovato?
I fiori, le nuvole, il sole!
La mia vita è stata un viaggio, senza ritorno, di acqua, di sole, di aria, di sogni!
Tutti mi cercano, mi lodano, ma pochi hanno capito cosa ho creato, chi sono!
I miei quadri sono venduti come status symbol. Pochi li cercano come sogno amato dalla natura, colorato da quel miracolo della luce, dal soffio del profumo della pittura che smuove la mia superficie d’acqua.”
Il vecchio pittore si tolse gli occhiali dalle pesanti lenti.
Si strofinò gli occhi perché l’emozione si tramutò in una perla di lacrima che illuminò la guancia.
La luce non gli bruciava più i suoi occhi, ormai spenti.
La luce era dentro di lui perché risplendeva nel luogo più intimo che possedeva: il suo cuore.
Guardò per un ultima volta il suo giardino, il suo eden, il suo capolavoro.
Si girò attorno a se per respirare il suo sogno, avvolto nel profumo della natura.
Un piccolo sorriso si aggiunse alla lacrima e illuminò la lunga barba bianca.
Il vecchio pittore era sospeso tra cielo e acqua, tra luce e luce.
Era nell’aria, come Dio nel suo paradiso terrestre, sull’arcobaleno della nuova alleanza tra lui e l’arte, tra lui e l’infinito, il ponte giapponese.
Quel vecchio pittore era Claude Monet.
Ma forse, anche lui, era un sogno.
Carlo Maria Pelatti


5)                   Michelangelo Contro Michelangelo                                                                (27/05/2020)


Roma, 1599.

Sin da quando ero a bottega dal maestro Peterzano a Milano, sentivo parlare delle sue belle pitture ad affresco.

Non mi sono mai domandato come uno scultore potesse affrescare cose così ammirabili.

Quello che ha fatto è un miracolo d’arte, e come ogni miracolo, bisogna solo contemplarlo.

Mi chiedevo: come ha potuto, un uomo, affrontare un’opera così colossale?

Come ha fatto a trasformare un soffitto in un capolavoro immortale?

Solo, lassù, per quattro anni?

Adesso, solo adesso, sento un solo nome che mi intimorisce: Michelangelo.

Il mio protettore, il cardinale Del Monte, mi ha procurato il permesso di poter entrare a contatto con lui, con la sua meraviglia!

Mi sento strano, ma anche curioso, un po’ intimorito!”

 

Di buon mattino, Michelangelo, si vestì di tutto punto e s’incamminò, spedito, verso il colle Vaticano. Il capo dei clavigeri lo accolse  accompagnandolo davanti alla porta di legno.

Michelangelo e Michelangelo erano, ormai, uno di fronte all’altro.

Il clavigero infilò la grande chiave in bronzo nella serratura e, con colpo sicuro, spalancò la porta dell’incanto.

Il paradiso di colori, di luci, di profumi sovrastò il giovane pittore.

Michelangelo lo vinse!

 “Non so’ dove guardare!

Troppo, troppo!

Tanto, mio Dio, com’è possibile?”

 Michelangelo cercava di posare lo sguardo ovunque per carpire, il più possibile, i segreti che gli stavano dinnanzi ma... .

Niente, solo estasi, solo stupore, solo meraviglia!

 Proprio in quell’istante, in mezzo a tanta bellezza, i suoi occhi si fermarono a fissare un particolare: la mano di Dio.

Rimase lì, immobile, in mezzo alla grande aula, con la testa rivolta in alto, rapito da quel piccolo miracolo.

“La mano di Dio!” disse con voce incantata.

“La mano di Dio!” ripete’ più volte.

“L’atto ultimo prima dell’attimo primordiale, prima del respiro donato alla meraviglia, alla vita, all’uomo.

Ma come ha fatto?

I due indici non si toccano, eppure Dio si slancia verso l’uomo?

Sembra che Adamo si svegli perché arriva il soffio divino e, a fatica, allunga il braccio senza forza per ricevere, nella sua mano, quella di Dio.

E tra i due indici c’è uno spazio senza vita, senza tempo!

Questo è un miracolo!”.

Michelangelo respirò profondamente, come se volesse stigmatizzare, dentro di se, quel gesto gratuito d’amore, l’atto di vita donato dal Padre al figlio.

 Ritornò nel suo studio, nella sua casa.

Aveva capito.

Ora era più semplice dipingere e, al contempo, più difficile.

Ora sapeva che la sua pittura poteva stupire l’eterna bellezza di Roma.

Quella mano avrebbe reso il suo nome immortale.

Lo sapeva, lo sentiva.

Il cardinale Berlingero Gessi gli diede questa occasione: gli affidò di dipingere due grandi teleri per la Cappella Contarelli all’Interno della chiesa di San Luigi dei francesi, la chiesa del re di Francia in Roma.

La sua prima opera pubblica e, quale migliore occasione per stupire i pellegrini e il popolo romano in occasione del Giubileo del 1600?

Il programma iconografico, discusso da troppo tempo, era deciso.

Mancava solo il genio, Michelangelo.

Gli bastò poco per dipingere quella mano, ma, non più del Padre ma, del Figlio.

Sola, potente, divina, sospesa nel vuoto d’ombra, centro di gravità dell’opera.

L’indice non si protendeva più verso Adamo, ma indica Matteo, odiato pubblicano che riscuoteva le tasse per i romani.

“Seguimi”, fu la parola dipinta in quella nuova mano.

Michelangelo lo sapeva che tutti l’avrebbero ammirata nei secoli, sapeva che, quella mano, gli avrebbe portato tanta fama ma, anche, tante critiche dai suoi contemporanei.

Troppo bella, troppo vera, troppo potente per loro.

Una nuova pittura fatta di luce, di ombre, fatto di natura, d’amore.

Non gli importò nulla delle critiche della gente.

Sapeva che lui era Michelangelo, Michelangelo Merisi da Caravaggio.

Lui era la nuova arte.

Roma aveva un nuovo re.

 Carlo Maria Pelatti


6)     GIORGIO MORANDI Il Silenzio della Perfezione                                              (01/06/2020)


 

Il portone di via Fondazza 36 si aprì e il pittore si incamminò sotto il portico.

Era diventato un appuntamento fisso: ogni secondo sabato e domenica mattina del mese, faceva un giro tra le bancarelle degli ambulanti dell’antiquariato in piazza Santo Stefano.

Il pittore li conosceva tutti e, dopo un breve saluto, si fermava, alzava i grossi occhiali neri sulla fronte e guardava gli oggetti esposti, con calma.

 Attorno a lui regnava il brusio dei curiosi, ma lui riusciva a circondarsi di silenzio.

In quel momento, incominciava a dipingere.

Un vaso, una rosa di seta antica, una singolare conchiglia colorata o una semplice latta: quelli e, solo quelli, riempivano la sua tela.

 Dovevano appartenere a lui, dovevano essere appoggiati sul tavolo di legno del suo studio, del suo hortus conclusus (giardino recintato).

I suoi occhi accarezzavano i loro profili.

Vedeva lo spazio, il respiro che faceva vivere l’oggetto, il luogo della luce che esaltava la forma.

 Il pittore abbandonò l’aurea del suo silenzio e indicò una brocca di latta ocra.

Si infilò, di nuovo, i grossi occhiali, strinse il pacchetto sotto il braccio e ritornò a casa, nel suo studio.

Lì, e solo lì, si sentiva a suo agio: lo studio, il suo mondo, suo, e di nessun altro.

Non poteva entrare alcuno, neppure le sue sorelle con cui condivideva l’appartamento.

 Entrò e, subito respirò il suo profumo di colori, di trementina, di acquaragia, di passione, di silenzio.

Aprì la grande finestra che dava sul cortile e la luce illuminò il suo universo.

Liberò il suo nuovo tesoro dalle carte di giornale e, con cura, lo appoggiò sul tavolo, in mezzo ad altre forme.

Lo sapeva, ne era certo.

Il quadro dipinto nell’aria, incominciava a prendere forza.

Il vuoto, tra forma e forma, esaltava il suo credo.

Non gli importava se parte della critica giudicava il suo operato artistico uguale a se stesso.

Lui non creava quello che gli altri volevano, lui desiderava raggiungere la perfezione, non l’idealità.

Silenzio, luce, ritmo, contorni, riflessi, ombre.

Dipingere oltre le leggi della natura, attingere ai segreti nascosti dell’arte, percorrere i sentieri che trasformano l’immagine in sublime adorazione.

 Ricordare la forma.

Si, ricordare la forma.

 Dipingere il vuoto, scoprire lo spazio. Aspettare, attendere, pensare.

Non guardare, ma rivolgersi alla memoria.

Questo il suo alfabeto.

 Così il passare dei giorni lasciava sedimentare il prezioso pulviscolo sulla superficie degli oggetti.

Il pittore continuava a perfezionare la composizione: piccoli spostamenti che rendevano la relazione, tra forma e spazio, In raffinato dialogo, in godimento di creazione.

 Ora il pittore era pronto, poteva rendere visibile il miracolo.

 Prese un foglio di raffinata carta, un pennello dalle lunghe setole e lo intinse, con delicatezza, nel colore scelto.

Fece scivolare la sua emozione sulla liscia superficie.

Poche pennellate, pochi attimi e il suo silenzio si tramutò in arte.

Un capolavoro di vuoto.

 Lasciò il foglio sul tavolo, accanto agli oggetti.

Si affacciò, di nuovo, dalla finestra e guardò il cortile bruciato dai raggi del sole.

Era inizio giugno. Era giunto il momento di godere il fresco di Grizzana.

 Giorgio Morandi

Pittore e incisore.

 Carlo Maria Pelatti


7)   Una Donna Una Pittrice: ARTEMISIA GENTILESCHI                                        (09/09/2020)


 

Esclusione dalle scuole d’arte.

Esclusione dallo studio del nudo maschile.

Esclusione dalla vita della bottega d’arte.

Questi sono i limiti che una pittrice, una donna pittrice, subiva.

  Il mondo dell’arte era padroneggiato solo da pittori, uomini pittori.  Non solo.

La società impone anche restrizioni sulla mobilità alle stesse donne: è difficile raggiungere altre città, visitare i suoi principali monumenti, vedere le collezioni d’arte.

Pregiudizi, isolamento intellettuale, privazioni di stimoli artistici.

Conoscete il nome di una donna che si è cimentata nell’arte dell’affresco, “il più virile di tutti gli altri modi”?

Chi l‘ha scritto?  Un uomo, Giorgio Vasari.

Per fortuna, io ho un padre pittore: Orazio Gentileschi. Lo conoscete? È stato uno dei pochi amici di Michelangelo Merisi.

Crescere in una bottega d’arte ha i suoi vantaggi.

Mio padre mi ha cresciuto a disegno e colore. In questo ambiente ho incontrato tanti pittori, ho ascoltato i discorsi di diversi intellettuali. Una fucina di stimoli!

Ed è grazie a questo che ho iniziato a dipingere, non d’impulso, ma con l’orgoglio che era dentro di me, da sempre.

Ho fatto della pittura il mio destino, ho cercato, in questo mondo di dominio maschile, d’infondere la mia pittura colorata di grazia e fierezza.

Molti uomini pittori dipingono quadri solo come esercizi di luce e ombre. Io, no!

Sulla tela metto tutta me stessa, la mia passione, la mia abilità, il mio coraggio, la mia forza e dolcezza.

Mi sono ribellata alla violenza subita, ho avuto soddisfazione, ma la gente continua a vedere lo sfregio, colpendomi con insulti e ingiurie.

Questo non ha ferito la mia dignità! Certo, ho lottato, ne è valsa la pena.

A Firenze sono stata la prima donna ammessa all’Accademia del Disegno e ho intrattenuto una lunga corrispondenza con un grande scienziato, Galileo Galilei.

Gli storici dell’arte mi ricorderanno come un’eroina, una donna fiera, quasi indomabile, in controtendenza nel panorama dell’arte dell’epoca.

Desidero parlarvi di un mio quadro dipinto quando avevo diciotto anni.

Ho descritto un brano intimo di vita quotidiana: una mamma con il suo bambino.

Ho ritratto l’estasi e la stanchezza.

Lei, giovane e bellissima ragazza, l’ho vestita di colore, di leggeri e preziosi tessuti drappeggiati con la luce del sole di Roma.

Sul suo volto traspare l’affaticamento di una giornata piena di vita, una stanchezza che solo una mamma conosce.

Questo la porta ad un momento di assopimento.

Il capo cede lievemente e la sua mano si abbandona all’improvviso riposo.

Nessun uomo, nessun uomo pittore, può capire e dipingere questi momenti di maternità!

Ho dipinto un attimo vero, semplice, fatto di amore: una mamma, il suo bambino.

Il cuore del soggetto? La carezza!

Il bambino, saziato dal latte materno, vuole il volto della sua mamma. Desidera imprimerlo nella sua memoria.

Chi può dipingere questo sentimento?

Io, Artemisia Gentileschi, donna e pittrice.

Sì, ne sono certa: la bellezza dei miei dipinti vincerà ogni forma di violenza.

Carlo Maria Pelatti


8)                    FRANCESCO HAYEZ: IL BACIO                                                                  (16/06/2020)


IL BACIO. EPISODIO DELLA GIOVINEZZA. COSTUMI DEL XIV SECOLO

 10 gennaio 1859.

Il re Vittorio Emanuele II, inaugurando i lavori del Parlamento Subalpino, ha declamato un discorso a difesa del popolo italiano e contro il governo austriaco :”Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi”.

A Plombiers, Vittorio Emanuele II ha stretto un’alleanza con Napoleone III.

Dieci anni di lotte, dieci anni di speranze.

Magenta, Solferino, San Martino: guerre che  aprono le porte alla speranza, alla libertà. È chiaro a tutti: l’Italia si deve liberare dall’invasore, gli austriaci devono lasciare il nostro paese.

L’Italia deve risorgere!

Il nostro orgoglio, la nostra fierezza, la nostra storia, la nostra bellezza: tutti i popoli stranieri ci devono rispettare!

Alla Scala è andato in scena il “Nabucco” e la musica e le parole del “Va pensiero” hanno acceso, ancor più, la passione, l’ardore e l’amor di patria in tutti noi!

Devo dipingere questi eventi, devo descrivere questa speranza, colorare questi attimi!

Come?

Un giovane, una bella ragazza, un bacio!

Una passione travolgente che suggelli il desiderio di un futuro migliore, libero, tutto da vivere.

È tempo di andare, un ultimo bacio, un intenso abbraccio e poi via.

Lei abbandonata tra le braccia del suo amato , le sue mani che stringono il volto reso ancor più bello dai lunghi capelli.

Lui coperto da un mantello da viaggio e con il piede sinistro già sul primo gradino, atto che anticipa la fuga verso il suo destino.

Tra i due appare una piccola scintilla di luce, l’elsa di un pugnale.

Di lì a poco, l’amata rimarrà sola, circondata da timori e bui pensieri.

Speranza e nostalgia si alterneranno in modo frenetico, nell’attesa che il suo amato ritorni da lei con la luce della vittoria negli occhi.

La vittoria, una patria che ancora non c’è!

I loro volti non si vedono e l’abbraccio fonde  i due innamorati l’uno nell’altro.

Il buio li sovrasta, rendendo quel bacio sospeso in un tempo eterno, incorruttibile.

Nella penombra s’intravede una sagoma: chi è? Un complice, una spia austriaca?

I loro abiti rendono omaggio al l’alleanza tra Francia e Regno di Sardegna.

Lei vestita con uno splendido abito di seta blu: dalle maniche fuoriescono due sbuffi della camicia bianca.

Lui indossa un paio di calzamaglia rosso: i colori delle nazioni alleate e quelle nascenti.

Due giovani protagonisti che stanno sognando il loro futuro, un avvenire politico tutto da scrivere, un destino nato da un bacio.

Un bacio assoluto, un bacio come impegno di future promesse, un bacio più grande del loro destino, un bacio che dovrà resistere alle traversie della vita che verrà!

Quando consegnerò il quadro al conte Alfonso Maria Visconti gli parlerò di questo amore, di questa “Giovine Italia” baciata dal suo giovane popolo, guidato dalle ali della speranza!

Piacerà anche al mio amico Giuseppe Mazzini, ne sono certo!

Piacerà a tutti voi perché, di fronte a questo bacio, dovete vedere quel mondo libero  da noi tanto cercato, a costo della nostra vita.

Un bacio per voi spettatori, per me, non più un sogno, ma certezza: l’Italia unita, l’Italia libera, l’Italia amata!

Quel bacio dice tutto questo!

Carlo Maria Pelatti


9)     NICCOLO' DELL'ARCA: MARIA MADDALENA                                                (24/06/2020)


 

 “COMPIANTO SUL CRISTO MORTO”

Bologna  - 1463-1490 - Chiesa di Santa Maria della Vita. 

Da quando ho lavorato al coperchio e alla cimasa dell’Arca di San Domenico tutti mi chiamano Niccolò dell’Arca, ma il mio vero nome è Niccolò d’Apulia.

Ho sempre plasmato la materia più umile che abbiamo. La calpestiamo ogni giorno e, lei, non si è mai ribellata. È il dono più prezioso che il Creatore ci ha lasciato in eredità: la terra, l’umile terra.

Umiltà ha la stessa radice di “Humus”: significa terra, terra fertile.

La terra è bellissima: si muove, vive, esiste.

Lo scordiamo sempre: tutti abbiamo bisogno della terra per vivere.

Terra e fuoco: così riesco a creare le mie opere destinate all’ immortalità.

La terracotta: la materia, per antonomasia, della scultura emiliana che annulla il pregiudizio nei confronti di quella scolpita nel bianco marmo o nel prezioso bronzo.

Le mie statue non prevengono all’ideale della bellezza classica, ma attingono alla verità nata dall’emozione della vita quotidiana.

Voglio che le mie sculture raggiungano esiti pittorici, perché, chi le vede deve stupirsi ed emozionarsi, sempre!

Avete visto la mia Maria Maddalena, esposta, insieme ad altre sei statue, presso il Complesso di Santa Maria della Vita a Bologna?

Maria Maddalena, una figura dall’indiscusso fascino storico e religioso.

Una donna rivoluzionaria, la stessa rivoluzione che ho creato su questo palcoscenico di verità. Lei è la protagonista, la più ammirata!

L’ho plasmata come nessun altro artista ha avuto  il privilegio di rappresentarla.

Un’opera ardita, scomposta, una postura indecorosa.

Una  nuova Nice trasportata dalla vita verso l’Amato.

Corre da Gesù: una corsa affannosa, esasperata, crudele.

Le vesti e il velo del volto, straziati dal vento, tremano sospesi nel vuoto.

Questo è il mio miracolo!

I lembi del manto, incastrati nei gomiti, impediscono alle mani di anticipare il corpo proteso all’arrivo.

La bocca spalancata dall’urlo trattiene le lacrime che, da lì a poco, bagneranno i suoi occhi aperti verso l’incredulo.

Un’opera d’arte senza filtri, vera! Ho plasmato ciò che, sino ad ora, non è mai stato creato: l’amore oltre la vita!

Un riscatto dell’umile terra, preziosa materia che ha trasformato il dramma in capolavoro eterno.

La terra è emozione!

Non è stato Dio che ha plasmato Adamo con la semplice terra, creandolo a sua immagine e somiglianza?

Eppure poteva usare l’oro, il bronzo, il marmo e, invece, ha scelto la terra.

L’amore per la terra.

Dalla materia più semplice nascono i capolavori più belli!

La gente lo sa.

Carlo Maria Pelatti 


10)         Vasilij Kandinskiy: Primo acquerello astratto                                                        (02/07/2020)



Non ho inventato niente, nulla di ciò che c’era già.
Lo abbiamo dimenticato, ma, basta rivolgersi dentro di noi per accorgersi dell’emozione data dal primo segno tracciato.
Da piccoli tutti ci siamo stupiti quando abbiamo osservato la realtà che ci circondava, ci siamo meravigliati quando le nostre mani hanno iniziato ad esplorare il mondo attorno a noi.
Ricordatevi: nessuno insegna ai bambini a scarabocchiare!
Eppure sul foglio di carta c’è la spontaneità dei volti, le tracce di tante storie fantastiche.
Per noi adulti sono solo scarabocchi disordinati, ma, per i bambini sono il mondo costellato da segni, linee, colori lasciati da movimenti casuali, non controllati.
Macchie cromatiche legate insieme da immaginari sentieri: un paradiso!
Inediti codici tramutati in soggetti, verbi di un nuovo alfabeto ritmato dall’emozione, dalle note musicali della vita che si apre.
Niente è naturale, è altro!
Una fantastica fonte di felicità.
Scarabocchiare è parlare con parole vergini, prive dei dettami estetici imposti.
Scarabocchiare è libertà, è esistere!
Perché opprimere questo infinito dinamico, queste improvvisazioni di moti e musicalità di colori?
Sono forme pure, innocenti, vere!
Dovevo lasciare ciò che avevo visto e imparato.
Dovevo volgermi, o meglio, rivolgermi al mio primo scarabocchio conservato dentro di me.
Dovevo chiudere gli occhi e riaprirli nel mondo dell’anima, dell’emozione, della genuinità non contaminata da ciò che vuole il nostro mondo!
Lo scarabocchio non è un azzardo ma purezza e semplicità del primo atto di vita artistico!
Quale gioia è più contagiosa?

Carlo Maria Pelatti
 

11)               VINCENT VAN GOGH: I GIRASOLI                                                                 (07/07/2020)


Ricordo bene: era il venti febbraio. Appena sceso dal treno della stazione di Arles rimasi stupito: tutto era ricoperto dalla neve e soffiava un gelido mistral.
Avevo lasciato Parigi per cercare la verità dei colori, la natura illuminata dal sole.
Ho atteso pochi mesi e... il miracolo si avverò davanti a me!
Luce, luce, luce!
Ad Arles ho imparato ad aprire gli occhi.
Ho cercato la luce ovunque, sempre.
La luce del mezzogiorno, quella che scalda, feconda, acceca e brucia le mie attese. Anche di notte ho rincorso la luce delle stelle riflessa nell’onde del mare.
Ho cercato e ho trovato.
E ora dipingo, dipingo, dipingo!
Campi di grano macchiati dai papaveri, filari di lavanda incorniciati dal profumo degli iris, ma, in questo paradiso, ho trovato il sole in un fiore: il girasole.
Non mi stancavo mai di guardarli e rimanevo lì, nei campi, per ore, per giorni interi, stregato dalla loro  semplicità e fierezza.
Accarezzati dai raggi del sole, sfidavano, orgogliosi, il cielo blu.
Rimanevo senza respiro, rapito nel contemplare questa tavolozza di colori infiniti.
Quello che cercavo era lì, attorno a me, dentro di me!
Giallo, blu.
Il giallo dell’amicizia, della luce e il blu dell’eterno cielo che mi portava questa luce.
Decisi di fare una sorpresa al mio amico Paul Gauguin che, tra pochi giorni, mi raggiungeva ad Arles: un quadro da appendere alla parete della sua stanza, nella casa gialla.
Non volevo dipingere solo un vaso di fiori, ma rivelare la luce emanata dal mazzo di girasoli raccolti.
Ogni fiore si rivolgeva verso un punto differente dall’altro: un semplice espediente dinamico dato ad un soggetto inerme.
Anche se appassivano rimanevano splendenti, sempre più belli nel tempo che passava.
Poi... tanto colore, tanto spessore per raccontare il peso della ruvida corolla.
Per evidenziare ancor più questo fiore, sovrapposi un’altro strato di colore giallo a quello già presente sulla tela.
Luce su luce per eguagliare il giallo assoluto.
Dovevo ritrovare quel sole che mi aveva trasformato, la luce che mi aveva dato nuova linfa, quel miracolo che girava attorno a me.
Guardando quei girasoli capii che ero un uomo nuovo, legato alla terra, come fiore piantato nella terra, come girasole che si lascia baciare dalla vita.
Nessuno ha dipinto questi fiori come me perché io sono il pittore dei girasoli.
Carlo Maria Pelatti


12)           GIOVANNI ANTONIO CANAL: Canaletto                                                        (13/07/2020)


 

IL CANAL GRANDE DA CA’ BALBI VERSO RIALTO
“Nel primo giorno Dio creò il cielo e la terra e infine la illuminò con la luce.
Dio chiamò l’asciutto ‘terra’ e la massa delle acque ‘mare’” (Gen 1,9-10).Separare l’acqua dalla terra vuol dire porre dei confini: questo vale anche per Venezia?
Dove delimitare l’acqua e il cielo a Venezia?
Sapete cosa c’è a Venezia?
Una foresta di pali, un bosco piantato nel bel mezzo della laguna.
Nessuno aveva fatto crescere palazzi di pietra sull’acqua: il genio dei veneziani si!
Hanno avuto il coraggio di sognare e sono riusciti a fondare, su di un imbroglio, l’autentico splendore.
E ci sono riusciti!
Ogni giorno mi perdevo in quel gomitolo di calli, ponti, sottopordeghi e campielli, per ritrovarmi davanti all’estasi della luce nella strada più bella del mondo: il Canal Grande.

Non volevo essere solo un bravo scenografo, come mio padre e mio fratello: desideravo diventare il più famoso pittore vedutista della  mia città.
La gente non faceva più caso quando arrivavo con la mia camera ottica e mi infilavo sotto al telo nero per disegnare.
Sul foglio annotavo tutto: il nome del palazzo, il numero delle finestre delle case, i colori da usare.
Rientrato subito nello studio per riportare tutto sulla tela, per non dimenticare l’emozione provata.
Volevo fare una spettacolare veduta del Canal Grande, una visione a volo d’uccello.
Ho scelto di affrontare il palazzo Balbi, una imponente architettura, dal sapore palladiano, perfetta ouverture, una  prospettiva che valorizzasse la veduta sino al ponte di Rialto.
Ogni ora del giorno ha la sua luce.
Luci e ombre che si contendono lo specchio d’acqua del Canal Grande e, con loro, l’immortale cielo di Venezia.
Dovevo definire la magia dell’ombra che, in quell’attimo, si posava sulla superficie dell’acqua tramutando, la mia tela, in un capolavoro.
Non solo: volevo esaltare anche la più piccola increspatura di luce nell’onda del canale, per rendere unico il fascino della laguna
Se il Paradiso è sulla terra, questo Eden si chiama Venezia.
Un colpo di scena, un sontuoso fondale per pitturare la meraviglia della natura che accoglie la quotidiana vita.
Tutto diventa magia!
Non mi rimaneva che far rinascere la luce della creazione per regalare, il mistero di Venezia, ai foresti.
Dipingere le voci dei barcaioli, respirare l’odore della laguna, incantare con l’imponenza dei palazzi che sfiorano lo specchio di luce.
E così la meraviglia ha il sopravvento!
Ogni minimo particolare si tramuta in nobiltà.
Uno solennità senza ritegno, sfacciata!
Venezia può rivaleggiare solo con se stessa!
Alla fine ho firmato la tela: dove?
Venezia si affaccia sul balcone del palazzo e il sole le accarezza il volto tramutandola in nuova Venere.
Cercatela!
Carlo Maria Pelatti


13)                          GIORGIO DE CHIRICO                                                                           (21/07/2020)


“LE MUSE INQUIETANTI

Facevo parte del 27^ Reggimento di Fanteria distanza a Ferrara.
Fui condannato, dal tribunale militare, per diserzione e confinato presso nell’ex Seminario trasformato, per il periodo bellico, in ospedale psichiatrico.
Lavorai negli uffici del nosocomio: questo mi permise di avere una ‘certa’ libertà.
Fu così che conobbi un giovane pittore locale, un certo Filippo de Pisis, il quale mi fece conoscere Ferrara: città dalle cento meraviglie, della solitudine, città ideale del rinascimento.
Mi colpì particolarmente il ghetto ebraico:
un luogo assoluto, magico,  pervaso di sapienza e mistero cabalistico. Ferrara era la cornice ideale del mio pensiero, della mia pittura.
 Perdendomi nelle sue vie colme di nebbia, mi domandavo cosa c’era oltre l’apparenza delle cose, oltre il razionale, oltre la pazzia dell’uomo.

Qual è la vera vita, dov’era? Avvertivo un’insopportabile solitudine, quasi inquietudine, un mistero che oscurava la mia verità.
Decisi di rendere visibile ciò che c’era oltre, l’interrogativo rincorso, dipingere ciò che i miei sensi potevano capire, percepire.
Dovevo sforzarmi perché sentivo di rendere visibile il mistero che regolava l’esistere.
Come?
Manichini! Manichini al posto delle persone.
Poi, usare differenti prospettive per disorientare la logica e il suo senso calcolato.
Forme vuote, spazi urbani vacanti, un’eternita’ immobile. Dovevo arrivate alla poetica presente oltre la realtà fisica conosciuta.
Dipinsi due muse greche, protettrici delle arti, e una statua di Apollo, dio delle muse, su di un ponte di legno di una nave: Ferrara era, e sarà, una città sorta nel mare della pianura.
Due muse che vegliano su questa immobile città.
Una ritta in piedi, come colonna ionica, rivolta verso Ferrara, l’altra seduta, con le braccia conserte, nel rifiuto di portare la testa. Non c’è dialogo, non circola un filo d’aria: solo inquietudine.
Due muse: saranno loro ad accompagnarci oltre l’apparenza, oltre il tempo, al di là dell’inganno.
Solo dopo la mia  supplica alle muse, troverò la giusta ispirazione e la risposta alle mie domande.
Sullo sfondo, nella nettezza dei colori del cielo, il castello Estense, dalle finestre buie, si contrappone ad una fabbrica dalle alte ciminiere prive di fumo: nessun duca regna, nessun operaio lavora
Il passato e il futuro: un’esistenza sospesa, un tempo non conosciuto.
Reale e irreale si fronteggiano annientandosi.
È questa la logica del mondo?
“Oh muse, il vagare del pensiero è tormento.
Inquietudine.
Chiedo a voi di porre, di fronte a me stesso, non l’ingegno, non l’inganno, ma la verità, il nascosto sapere negato alla pazzia umana, la gioia bramata nel corso della vita, quella vera, quella unica, quella immortale”.
Carlo Maria Pelatti


14)          MICHELANGELO MERISI: CARAVAGGIO                                                      (29/07/2020)


MATTEO E L’ANGELO – pensieri e parole
È colpa del Bellori, del pittore Giovanni Bellori!
Ne sono sicuro! Poi adesso vuole fare anche il biografo!
Tra me e lui non scorre buon sangue. Perché? Ha ricevuto un riconoscimento ufficiale, una catena d’oro, per aver dipinto un quadro dedicato all’”Amor Divino”. Gli dedicai tre poesie dove lo decantavo come “un pittore che non vale na patacca”.
È per questo che scrisse che il mio quadro, “Matteo e l’angelo” fu rifiutato per mancanza di decoro, un nuovo scarto che si aggiungeva agli altri miei quadri.
La Cappella Contarelli fu la mia prima commissione pubblica.
Il cardinale Matthieu Cointerel commissionò gli affreschi laterali e della volta, della sua cappella nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, prima, al pittore Girolamo Muziano, senza ottenere nulla, poi a Giuseppe Cesari, detto Il Cavalier d’Arpino, pittore che conoscevo perché andai a bottega da lui  appena giunto a Roma: anche quest’ultimo, causa impegni, declinò.
Gli eredi del cardinale decisero di commissionare una statua, da posizionare sopra all’altare, dedicata a San Matteo, allo scultore fiammingo Jacques Cobaert: la sua opera non riscosse l’entusiasmo atteso.
Ora toccava a me stupire Roma.
Le accuse, verso di me, non tardarono ad arrivare: il cardinale Francesco Maria Bourbon del Monte, il cui palazzo fronteggiava la chiesa di San Luigi, e dove io vivevo, intercedette per l’affido dell’impresa artistica.
Gli eredi, stanchi delle delusioni precedenti, accettarono. Anzi, acconsentirono alle mie richieste di sostituire gli affreschi con tele.
In breve tempo, dipinsi “ La chiamata” e “Il martirio”.
Nella cappella rimaneva un vuoto: la pala d’altare.
Mi ricordai di un affresco realizzato dal mio maestro milanese, Simone Peterzano, un San Matteo e l’Angelo, dipinti in una lunetta nella chiesa della Certosa di Garegnano.
Pensai alla posa dell’evangelista, una creazione fantastica: seduto, come un comune uomo, con le gambe accavallate. Sulla gamba destra era appoggiato il rotolo per scrivere, e, in primo piano, i piedi. Di fianco, ritto in punta di piedi e in un dialogo fatto di sguardi, l’angelo gli sorreggeva il calamaio.
Volevo ripetere quelle posizioni.
Non desideravo dipingere un San Matteo eroe, o un modello cristiano irraggiungibile dal popolo.
Qui a Roma ho incontrato un uomo di Dio, lo chiamano “il santo della gioia”, un povero tra i poveri: aiuta e parla agli ultimi restituendogli un’eccelsa dignità.
Avete sentito parlare di Filippo, don Filippo Neri?
Misi in atto quello che sapevo, Milano, Roma, la mia luce.
Matteo, il corrotto, l’odiato: Gesù lo chiama, lo sceglie come suo apostolo.
Matteo lascia se stesso: dopo l’incontro con Gesù nulla è come prima.
Matteo, adesso, è un uomo.
Dovevo dipingere la docilità dell’abbandono, la meraviglia di ciò che gli accadeva: un angelo gli prendeva la mano e, insieme, iniziavano a scrivere.
Occhi sgranati, fronte corrugata: Matteo scrive ciò che non immagina, ciò che non sa se non per rivelazione divina.
Un angelo bellissimo dalle labbra carnose: labbra che dovevano sussurrare la Parola di Dio all’orecchio di un uomo.
Un capolavoro di docilità all’Amore!
E invece... lo hanno rifiutato!
Perché?
Un uomo non accavalla le gambe? Non ha i piedi? Forse mostrare un uomo normale in una chiesa è così disdicevole?
Cosa volevano? Un gigante grande e grosso?
E il Baglioni non ha perso tempo a scriverlo!
Non mi persi d’animo: dipinsi una seconda tela.
Matteo non era più seduto con le gambe accavallate e i piedi in bella vista, ma appoggiato tra un tavolo ed uno sgabello.
Si volta indietro perché l’angelo non è accanto a lui: un angelo strano perché non gli dipinsi le ali, ma, al loro posto, creai un incredibile gioco di svolazzi di panni bianchi.
Questo non mi bastava, volevo la rivincita: uno sbeffo, un gesto sottile che si confondesse con la conversazione divina!
Il pollice e l’indice della mano destra di questo ragazzo sospeso  a mezz’aria, afferrano l’indice dell’altra sua mano.
Quando si conta, con le dita delle mani, il dito pollice corrisponde al numero uno e il dito indice al numero due.
Cosa ho voluto dire?
“Cari signori, se non vi è piaciuto il primo, prendetevi il secondo!”.
Carlo Maria Pelatti

 

 


15)                          SANDRO BOTTICELLI                                                                           (08/08/2020)


SIMONETTA CATTANEO DELLA VOLTA
Simonetta, Simonetta Cattaneo della Volta. Si chiamava così la più bella donna che Firenze abbia mai visto: la “senza paragoni”.
Una dea: ovale del viso perfetto, occhi verdi incorniciati da lunghi e ondulati biondi capelli, labbra carnose, forme dolci come le colline di Firenze.
Capii subito che lei era la mia Venere.
Possedeva il fascino che incantò gli artisti di Lorenzo: Piero di Cosimo, il Verrocchio, il Ghirlandaio, il Lippi e, infine, io, Sandro Botticelli.
Nacque a Genova, dal nobile casato dei Cattaneo della Volta.
A sedici anni andò in sposa a Marco Vespucci, rampollo della ricca famiglia di banchieri fiorentini: per i Cattaneo un matrimonio di convenienza patrimoniale, anche se, Marco Vespucci, dichiarò sempre il suo amore per lei.
Dopo le nozze, benedette dal Doge della Superba, la nobile coppia si trasferì a Firenze.
Il fascino di Simonetta arricchì la città all’apice di un traguardo, politico, economico, culturale artistico mai più eguagliato.
Firenze si inginocchiò al suo incanto.
E Giuliano? Il mio amico Giuliano de Medici non sfuggì al suo splendore.
Più volte insistette perché la ritrassi: sapeva che, per una nobile dama, posare era considerato atto non adeguato.
Io non avevo problemi: la grazia di Simonetta era dentro di me, nel mio pensiero, nella mia arte.
Resi immortale il suo volto: Venere, Afrodite, Pallade, Flora e la Grazia che, di spalle, fissa Mercurio, Giuliano de Medici.
Solo eleganza, raffinatezza: Simonetta era ornata di solo raffinato splendore.
La mia pittura si elevò, senza sforzi, a pura contemplazione.
Dipinsi un sogno, un amore, un attimo di estasi.
Giuliano e Simonetta?
Lui, vigore e vivacità, un Medici, lei, bellissima, nobile e sposata.
Offrii la mia arte al loro amore, al loro ardore, al loro desiderio, segreta passione divenuta leggenda.
Quando tutto sembrava splendere di luce propria, nubi oscure si addensarono su questa fiaba.
Simonetta si ammalò: il “mal sottile”, la tisi, si impadronì del suo corpo.
Il suo sorriso si spense a soli ventitré anni. Era il 26 aprile 1476.
La notizia trafisse Firenze, un velo di dolore si posò nei cuori di tutti.
Venere, Flora, non c’era più.
Gli fu tributato un ultimo onore, un privilegio dato ai soli nobili cavalieri: durante il corteo, che la portò alla chiesa di Ognissanti, patronata dai Vespucci, il suo volto non fu coperto affinché tutti potessero ammirarla per l’ultima volta.
Il destino volle che i membri della famiglia Vespucci prendessero parte alla congiura organizzata dalla famiglia de’ Pazzi: volevano uccidere i Medici, Lorenzo in primis.
E invece... Lorenzo, miracolosamente, si salvò e Giuliano cadde, per terra, in un lago di sangue.
Era il 26 aprile 1478.
Lo stesso giorno, lo stesso mese... quelli di Simonetta.
Piansi il mio amico, piansi la mia venere.
Rimanevano solo i loro volti, il loro amore che affidai alla contemplazione della storia dell’arte.
Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, conosciuto come Sandro Botticelli, chiese di riposare, per sempre, accanto a Simonetta nella chiesa fiorentina di Ognissanti.
Il 4 novembre 1966, le acque del vicino Arno, tracimarono l’argine innondando, furiosamente, la chiesa di Ognissanti, in modo rovinoso.
Il corpo di Simonetta fu trascinato via e non fu più ritrovato.
La Venere nasceva e spariva nelle acque per sempre.
Ancora oggi, tanti suoi ammiratori raggiungono Ognissanti, visitano Sandro Botticelli, onorandolo con  fiori e tanti bigliettini scritti conservati, dai custodi della chiesa, in un cestino di vimini posto accanto a lui.
Carlo Maria Pelatti


16)                            GIOTTO DI BONDONE                                                                          (13/08/2020)


IL BACIO D’AMORE DI GIOACCHINO E ANNA
Gioacchino e Anna.
Lui, discendente della stirpe di David, uomo virtuoso e timorato di Dio, lei moglie fedele dalla vita esemplare. Sposati, vivevano a Gerusalemme nei pressi della piscina di Betzadea.
Non ebbero figli: la legge ebraica classificava, la sterilità di coppia, come una maledizione di Dio.
Un giorno Gioacchino sentì il desiderio di andare al tempio per supplicare Dio al fine di esaudire le sue preghiere.
Il sacerdote Ruben, riconoscendolo, lo umiliò allontanandolo: la sua offerta era considerata indegna di essere offerta sull’altaredel tempio del Dio di Israele.
Sconvolto, Gioacchino non ebbe il coraggio di fare ritorno a casa: amava Anna e non voleva concepire figli con altre donne ebree.
S’inoltro’ nel deserto trovando riparo presso una tribù di pastori: qui, tra lacrime e digiuni, implorò Dio.
Anche Anna, non avendo più notizie del suo sposo e gravata dallo stato di sterilità, pregò Dio di alleviare il suo dolore.
Dopo quaranta giorni, un angelo apparve, separatamente, ad entrambi, annunciando la notizia della futura gravidanza.
Colmo di gioia, Gioacchino corse da Anna: l’incontro avvenne presso la Porta Aurea di Gerusalemme, luogo deputato, dalla tradizione ebraica, alle manifestazioni divine e all’avvento del Messia.
Fui chiamato, a Padova, da Enrico Scrovegni, figlio di Rinaldo Scrovegni, ricchissimo banchiere, d’origine fiorentina: Dante lo porrà, nella Divina Commedia, all’inferno a causa dei gravi peccati d’usura commessi nell’arco della sua vita professionale.
La piccola chiesa, dedicata a Santa Maria della Carità, doveva essere la cappella-mausoleo familiare del loro sontuoso palazzo che doveva essere edificato nell’antica area romana della città.
Voleva che le pareti interne della chiesa fossero coperte da un ciclo di affreschi dedicati alla storia alla vita di Cristo e concluso da un grandioso Giudizio Universale.
Quaranta scene per raccontare la storia della salvezza: colore e luce, dolore e amore, speranza e certezza, espressi con l’arte del mio genio.
Dovevo stupire il mondo, sorprenderlo, iniziando con la storia d’amore di Gioacchino e Anna.
Due sposi uniti nell’atto puro di un bacio. Si, un bacio!
Una promessa colma d’amore che trascendeva entrambi in travolgente passione.
Un bacio che sigillava un futuro di attese divine.
Un bacio, un abbraccio: ognuno sapeva il segreto dell’altro.
I loro volti, illuminati da un’unica aureola, si fondono l’uno nell’altra.
Gioacchino stringe a se Anna e lei contorna il suo volto accarezzandolo con le mani.
Le labbra si toccano e i loro occhi si guardano reciprocamente, fissi nell’apice della gioia.
Uno sguardo d’amore purificato da ogni dolore.
Ci sono altri occhi, testimoni della scena: gli occhi del pastore che, ora, potranno rivedere quelli dei suoi compagni nel ritorno nel deserto.
Gli occhi delle donne di Gerusalemme, che dichiareranno la gioia dell’evento divino.
Gli occhi, velati dal manto nero, della donna simbolo della paura di Anna, che si perderanno, per sempre, tra le vie della città.
Non ci saranno gli occhi degli sacerdoti e scriBi del Tempio, perché sterili di fronte alla generosità di Dio.
Occhi, tanti e differenti uso degli occhi: occhi aperti per vedere l’Invisibile, occhi che si abbandonano nella fecondità dell’Amore divino.
Il bacio tra Gioacchino e Anna, anticipo di un altro bacio, differente, non più d’amore ma del più meschino tradimento: il bacio di Giuda.
Carlo Maria Pelatti


17              PAUL GAUGUIN E IL SUO VIAGGIO                                                              (22/08/2020)


Millequattrocento chilometri da Tahiti.
Lontano, ancora più lontano.
Su quale altro altare dovevo sacrificare la mia rabbia?
Lascai il patetico teatro della ‘civiltà’ ipocrita e corrotta, lasciai Parigi, Pont-Avent e Tahiti.
Mi inoltrai nello sconosciuto: dovevo scoprire cosa c’era oltre la linea del mare.
Cercai la purezza nella terra del paradiso: lì, solo lì, la mia pittura avrebbe raggiunto la libertà, il sogno. Miva Oa: ecco il mio Eden.
Era il 16 settembre 1901 quando sbarcai nella beatitudine.
Un’isola incontaminata nell’arcipelago delle Isole Marchesi: un punto di luce nel bel mezzo dell’oceano Pacifico.
Appena arrivato, mi salutò il sole, mi travolse una natura mai vista, mi stordirono una tavolozza di colori mai visti: mi rapì un’inarrestabile felicità!
Libero, per la prima volta, nella mia vita, mi sentii pienamente libero.
Di fronte a me, mare, sabbia, alberi, frutti e, loro, angeli dalla pelle d’oro: donne bellissime, uomini dediti alla pesca e bambini educati alla spensieratezza.
Niente altro! Divina natura, sacra armonia.
La pittura nasceva da sola, volava sopra al sogno.
Non dovevo più chiudere gli occhi, ma, ora, spalancarli per non perdere nulla.
Magia, incanto: ero stordito da questo arabescato arazzo!
I colori più iridescenti divoravano le tele in inedite e tumultuose orchestrazioni cromatiche: abbandonavo il pennello perché si librasse oltre il mio limite, oltre la mia volontà creatrice.
Il tempo non esisteva più.
La libertà, supplicata, corteggiata, inseguita era, all’improvviso, davanti a me, dentro di me.
Il viaggio straziante, al limite della pazzia, era giunto al termine: mi ritrovai nudo di fronte alla pittura, iniziato, dalla natura, all’incanto del primo sguardo sulla felicità.
Sino ad ora ero stato muto, sordo, cieco e, ora, capii che, questa sublime beatitudine mi inseguiva, da sempre, per sedurmi.
La natura si concedeva a me e, io, finalmente mi abbandonai alla sua gioia.
Ero arrivato: il mio pellegrinaggio, nel labirinto della vita, mi aveva riportato a me.
La felicità, che cercavo negli altri, era stata sempre in me.
Il paradiso, il sogno dentro di me: dovevo trovare il coraggio di coglierli.
Ognuno ha il suo viaggio da percorrere per abitare il proprio sogno: io l’ho trovato qui, in mezzo al nulla.
Alla fine ci sono riuscito,
Ho scoperto quello che desideravo da tutta una vita: l’armonia tra uomo e natura, tra Dio e me.
Ben ritrovato Paul Gauguin, viaggiatore e pittore.
Carlo Maria Pelatti


18)                                       SI RIPARTE                                                                                         (02/09/2020)


Si riparte! 

Ora posso dirlo: aspettavo, da mesi, questo momento. Parole che non tradiscono una certa emozione. In questo periodo ho cercato di esservi vicino con i miei scritti dedicati a diverse opere d’arte.
Ho immaginato che, il pittore o lo scultore, vi parlasse in prima persona, facendovi entrare, con i suoi occhi, nella sua creazione, nel suo travaglio con tutta la sua passione.
Ricordo il primo articolo dedicato agli “Angeli del fango”, quelle splendide persone che, dopo il 4 novembre 1966, salvarono la sfregiata Firenze: articolo scelto dal Comune di Vignola e pubblicato tra le pagine del suo giornale informativo.
L’Associazione Culturale “Archeo e Arte” c’è, non si è dimenticata dei suoi iscritti che, nel corso degli anni, hanno aderito, con passione, alle visite delle mostre d’arte e dei luoghi più belli d’Italia.
Luoghi da sfogliare, quadro dopo quadro, affresco dopo affresco, statua dopo statua, meraviglia dopo meraviglia, nello stupore dato dalla bellezza che il genio umano ci ha lasciato.
In Italia, dietro ad ogni angolo, si cela sempre il bello: è questo che tutto il mondo c’invidia.
Dobbiamo essere orgogliosi di essere i custodi di questo inestimabile ed inesauribile tesoro!
“Angeli dell’Arte” non rinunciate mai alla gioia che l’arte, e solo l’arte, può regalare.
Amatela, fatela vivere in voi.
Davanti ad un quadro, o una statua, onoratela, accarezzatela con gli occhi e, non lasciatela lì appesa ad un muro o in un angolo della stanza.
Portatela con voi, nel cuore, nella mente: non costa nulla, è gratis!
Stupitevi e spegnete ciò che è inutile. Lasciatevi rapire dal bello. Siate curiosi, siate controcorrente.
Solo i pazzi vengono ricordati: non vi dice nulla il nome Vincent?
Educate e investite il vostro sguardo perché sarà lui a fruttificarvi nello spirito.
Entrate in una mostra o in un museo: andate avanti e tornate indietro perché non perdiate neppure una pennellata di colore, di luce, di gioia.
In quel gesto c’è tutto l’incanto di un momento eterno: questa è l’Arte!
Guardate e arricchitevi e non lasciatevi trascinare da semplici giudizi altrui: il vostro, solo il vostro, ha un valore assoluto.
Termino con una foto: novembre 2019, MOMA, New York.
Sono andato a trovare uno dei miei pittori preferiti: Mark Rothko, artista fantastico quanto controverso.
Mi sono fermato davanti a questo quadro e, Mark Rothko, mi ha portato con sé, nel suo mondo: un attimo, un momento, io e i suoi colori.  Pura emozione.
E ciò che auguro ad ognuno di voi: lasciatevi incantare: fa bene e costa poco.
Non dimenticatelo!
Grazie a tutti!
Si riparte.
Carlo Maria Pelatti


19)              JEAN BAPTISTE SIMEON CHARDIN                                                              (06/11/2020)


 IL VOLTO DEL SILENZIO, IL VOLTO DI CHARDIN

Silenzio.

Tutti lo reclamano, pochi lo cercano.
Arduo trovarlo: difficile farsi scivolare l’inutilitá del superfluo per trovare l’essenziale.
Cercare uno stato di pace avvolgente per sentire il respiro delle setole che accarezzano la tela, il profumo dell’olio di lino, seguire il fremito della luce che entra nel quadro.
Silenzio: ora canta l’arte del dipingere la verità.
Non bisogna abituarsi a ciò che gli altri insegnano: ora, per vedere la bellezza celata in un’opera d’arte, bisogna stupirsi.
Ecco il segreto: la verità, la natura ritratta.
I quadri di Chardin non si deducono, non si indovinano: bisogna guardarli, guardarli e ancora guardarli.
Il colore si tramuta in strumento privilegiato per dipingere l’essenza, la vita reale.
Non c’è niente di più semplice dell’arte di Chardin.
I suoi quadri non hanno bisogno di essere interpretati, capiti: la sua pittura si sottrae al dato storico, non soggiace alla persecuzione di inutili parole.
La bellezza eterna va contemplata.
Chardin raccoglie, sulla punta del pennello, una luce particolare, tutta sua, e la diluisce con l’aria.
Ci insegna ad ascoltare l’invisibile soffio degli oggetti disposti, con maniacale cura, di fronte a noi.
Nessun gesto creativo è tollerato. Nulla di più semplice?

La sua arte è pura, silenziosa, apparentemente immobile ma estremamente bella: verità e natura esaltano lo spirito dello spettatore.
Un quadro, un capolavoro: “Necessaire per fumatore”, opera firmata e datata del 1737.
Una tabaccheria appoggiata sopra al tavolo, opera realizzata da un esperto ebanista amico del padre, in legno di palissandro, foderata, internamente, con un raffinato raso blu.
Accanto, un omaggio al Giappone: un contenitore per il tabacco, un vasetto di porcellana decorato con rose e, a fianco, il suo coperchio bordato in argento.
La pipa, il cui fornello annerito e animato da una piccola brace accesa dove fuoriesce un’impercettibile linea grigia di fumo, sottolinea, con la sua perfetta diagonale, l’armonia tra verticali e orizzontali.
Qui, il legno è legno, la porcellana è porcellana, l’argento del bicchiere è argento.
La vera protagonista dell’opera è l’aria: avvolge ogni cosa esaltandone le firme di colori.
Assoluta bellezza, assoluta verità.
Tutto qui.
Ora, immaginate se, in questo attimo senza tempo, irrompesse un rumore esterno?
Una bolla di sapone che scoppia di fronte al nostro incanto!
Jean Baptiste Siméon Chardin: il volto del silenzio, un’arte senza tempo.

Carlo Maria Pelatti


20)                              LUCIO FONTANA                                                                                  (13/11/2020)


SEMBRA FACILE:

IL TAGLIO DI LUCIO FONTANA

1964, Buenos Aires: Lucio Fontana, in collaborazione con la “Galleria il Cavallino” di Venezia, redige il “Manifesto Blanco”.
Nasce il Movimento Spazialista o Movimento Spaziale, Arte Spaziale o Spazialismo.
Urgeva il sopravanzare dell’arte ritenuta “stagnante” per permettere al “Tempo e Spazio” d’innovare le arti figurative.
Lucio Fontana: non un pittore, ma ricercatore, ceramista, un riformatore.
Che cos’è un taglio fatto sulla superficie di una tela monocroma?
Un atto apparentemente banale, ma sicuro, veloce, di estrema bellezza, elegante.
Un’azione d’interscambio tra luce e buio, tra aria e materia, tra concentrazione e contemplazione.
Un segno rigenerante, un’emozione spalancata alla vita.
Un atto di liberazione della materia affinché l’arte superi le immobili tradizioni figurative.
Un gesto definitivo, una verità irrinunciabile, indipendentemente.
Uno sforzo creativo anticipatore dell’indelebile separazione dello spazio infinito.
La materia, impreparata, sottostà alla nuova perfezione imposta dell’uomo, dall’artista.
La tela, di graNa medio fine, preparata su entrambi i lati con uno strato di cementite bianca, veniva terminata, solo sul fronte, con una stesura di idropittura, utile per ottenere una superficie perfetta, liscia, priva da ogni accenno di pennellate.
Potevano passare giorni prima di affrontare l’opera: giunto il momento, l’affilata lama del cutter, guidata da mano ferma, solca la superficie dall’alto verso il basso con pressione regolare e velocità moderata.
L’errore non è contemplato: distrazione, screpolature, sfilacciamenti avrebbero comportato l’imperfezione del quadro.
Sul retro veniva inserita una spessa garza nera affinché non si vedesse il retrostante muro.
Solo tagli verticali o, al massimo, obliqui con le stesse dimensioni o differenti lunghezze.
Mai tagli orizzontali.
La perfezione.
Infrequente l’inserimento della data: l’opera spazialista è destinata all’atemporalità.
Una frase, ricordi, stati d’animo venivano scritti sul retro della tela: un abile accorgimento di certificazione contro i numerosi falsi che circolavano sul mercato.
Alla fine, il bordo veniva accuratamente incurvato a mano per assumere la forma che ancora oggi ammiriamo.
Sembra facile tagliare una tela, vero?
Invece, alla base di quest’azione, c’è un pensiero, una vastità, uno spazio, una luce, un uomo, un genio: Lucio Fontana.
Un taglio che non recide ma dona vita, serenità, libertà, libertà, tanta libertà.
Carlo Maria Pelatti

21)         LEONARDO DA VINCI: Cecilia Gallerani                                                            (20/11/2020)


“LA PIÙ BELLA DEL REAME”: CECILIA  E LEONARDO
Mi chiamo Cecilia Gallerani.
Mio padre Fazio e mia madre Margherita dé Busti, nobili senesi, erano di fede ghibellina:  fu questa appartenenza politica che segnò il declino della mia famiglia.
Mio zio Bartolomeo Gallerani si trasferì a Milano per iniziare, con successo, un’attività di funzionario pubblico.

 Dopo pochi mesi lo raggiunse mio padre: la corte ducale apprezzò le abilità professionali tanto che, il duca stesso Ludovico Sforza detto ‘il Moro’, allargò il loro operare ad altre nobili signorie milanesi.
In questa favorevole situazione, nel 1473, nacqui nella casa Gallerani presso la parrocchia di San Sempliciano,

vicino a Porta Comasina: ero la penultima di sette fratelli e una sorella.
All’età di dieci anni ero promessa sposa “pro verba” con Giovanni Stefano Visconti, vincolo prosciolto dopo pochi anni causa la mancanza di dote.
Nonostante le ristrettezze economiche, ricevetti, da mia madre, una ricca e fondamentale istruzione culturale umanistica: parlavo correttamente il latino e feci dell’arte del canto e dello scrivere le mie armi di seduzione.
Quando il Duca, Ludovico Sforza, mi invitò a corte, la mia vita si tramutò in fiaba.
Divenni la dama più ammirata, bella e affascinante di corte e, a me sola, venivano riservati le accortezze destinate agli ospiti di rango.
Organizzavo salotti d’incontro tra artisti e letterati, proponevo concorsi di poesia, concerti musicali e tutti i nobili facevano a gara per farsi invitare: avevo trasformato la corte milanese nel più brillante centro culturale del rinascimento. La stessa Isabella d’Este mi invidiava.
Un giorno il Duca Ludovico mi presentò un uomo arrivato da Firenze che, a sentir dire, inventava macchine belliche, case chiese e strade mai viste, organizzava feste da mille e una notte.
Quest’uomo, però, sapeva anche dipingere: si chiamava Leonardo, Leonardo Da Vinci.
Lo ricordo bene, era il 1482: un uomo elegante, raffinato, una mente tanto affascinante quanto irraggiungibile.
Un genio.
Il suo sguardo, i suoi occhi così vivi e indagatori, gemme che riflettevano curiosità intellettiva.
Cercava ciò che gli altri non vedevano, non cercavano, non capivano.
Andava oltre la sensoriale apparenza, si spingeva oltre la ragione, oltre alla semplice conoscenza: guardava l’infinito, gli astri e ciò che fa vivere l’uomo e la natura.
Spesso mi offriva la visione dei suoi disegni corredati dai suoi appunti che solo lui sapeva leggere: strano, vero?
Per me, un fortunato incontro, una seduzione intellettuale: un unico foglio di carta poteva contenere disegni, architetture,  macchine da guerra e di spostamento delle acque, cavalli al galoppo, schizzi di anatomia umana e piccole caricature facciali: non potevo che esserne rapita.
Mi intrattenevo con lui per ore chiedendogli continue spiegazioni: ero ipnotizzata di fronte a così tale bellezza a me sconosciuta.
Fu il mio amato, il Duca Ludovico, a decidere di commissionare a Leonardo il mio ritratto.
Un grande onore, un privilegio: avevo quindici anni.
Decisi di essere effigiata come nessun’altra donna di corte era stata sino ad ora ricordata: e Leonardo non mi deluse.
Non dipinse il mio profilo perché atto riservato alle fidanzate e future spose: io ero Cecilia, l’amata di Ludovico, il Duca di Milano.
Indossai un elegante abito alla ‘spagnuola’, di gran moda dopo l’avvicinamento degli Sforza al Regno di Napoli.
Inventai una elaborata acconciatura: un laccio sulla fronte, i capelli raccolti da un velo dello stesso colore della chioma, la lunga treccia racchiusa nello stesso velo e, infine, una lunga ciocca che, passando sotto il mento, evidenziava i miei lineamenti.
Indossai una lunga collana di granate per simboleggiare la mia fedeltà al mio amato.
Mi sentivo bella, ma, Leonardo mi stupì di nuovo.
Dipinse ciò che non si poteva vedere: il mio mito che proveniva dall’anima.
Non parlavo, tutto era avvolto da nobile silenzio.
All’improvviso, un rumore; qualcuno era entrato nella stanza chiamandomi: “ Cecilia!”.
Il mio corpo si anima, il busto si gira.
Il mio sguardo attento cerca al di fuori degli spazi del quadro.
Leonardo seppe catturare la mia emozione, non sublimandola o idealizzandola, ma in modo naturale: una ragazza innamorata che vede  il suo innamorato.
Sul mio volto ritratto, descrisse un  accenno di sorriso: la perfezione dell’amore.
Sul seno mise un ermellino: in greco ‘Galè’, quattro parole che corrispondono alle prime quattro parole del mio cognome., Gallerani.
L’ermellino, in braccio a nobili fanciulle, ne sottolineava la purezza e la castità incorruttibile.
Una tradizione popolare affermava che, l’ermellino, proteggesse le donne incinte: io aspettavo un figlio da Ludovico, il futuro Cesare Sforza.
Infine, nel 1488, Ludovico Sforza, fu nominato, da Ferdinando I di Napoli, membro dell’Ordine dell’Ermellino.
Per questo tenevo l’ermellino vicino a me, accarezzandogli la morbida pelliccia.
Ma Leonardo tramutò la mia mano in un suo perfetto studio anatomico: una mia concessione.
Gli chiesi di porre, al ritratto ormai ultimato, una sua personale firma.
Mi sorrise.
Prese del colore sulle punta delle dita, lo amalgamò e, picchiettando sulla tela, lo depose su ciò che era già perfetto: lasciò le sue impronte digitali sul mio volto e sul volto dell’ermellino, su Cecilia e su Ludovico. Divenni ancor più bella, la più bella del reame.
Mi rese immortale.

 Carlo Maria Pelatti

 


22)                CAMILLO GUARINO GUARINI                                                                    (27/11/2020)


 L’INFINITO DI PIETRA E LUCE.

Camillo Guarino Guarini (Modena 1623-Milano 1683): religioso teatino, architetto, teorico, insegnante, scrittore di testi filosofici e matematici.
Il cardinale di Milano, Carlo Borromeo, invitò il duca Carlo Emanuele I di Savoia a edificare, presso il duomo di San Giovanni Battista, una degna cappella per custodire la reliquia della Sacra Sindone, giunta, nel 1578, da Chambery a Torino.
Era il 4 novembre 1666.
Lasciai Parigi e il lavoro intrapreso presso la fabbrica della chiesa teatina di Sainte-Anne-La-Royals, posto sulla sponda della Senna di fronte al Louvre, per raggiungere il cantiere piemontese.
Passarono due anni prima di iniziare la mia opera.
Altri architetti si erano già avvicendati in questa impresa lasciandomi una parziale struttura architettonica esistente: Antonio Vitozzi, Pellegrino Pellegrini, Carlo e Amedeo Castellamonte e Bernardino Quadri.
Ora toccava a me, con la mia rivoluzione stilistica mai vista prima.
Feci tesoro di ciò che vidi durante il mio soggiorno di studi a Roma; le magnifiche architetture del sovversivo e ribelle Francesco Borromini: Sant’Ivo alla Sapienza, San Carlino alle Quattro Fontane e l’Oratorio dei Filippini.
Qui a Torino, dovevo fare un’opera degna della casa ducale sabauda.
Progettai, direttamente comunicante con alcune sale del Palazzo Reale e a contatto con la zona absidale del duomo, una sala circolare sopraelevata occupata dall’altare e sede della reliquia della Sacra Sindone.
La magia barocca?
Entrando, il fedele alzava lo sguardo e veniva  rapito nella vertiginosa fuga verso l’alto della cupola.
Una bizzarria mai vista che annullava le certezze del passato.
Una creazione di forma conica, più alta rispetto alla vicina cupola del duomo.
La mia creazione di caratterizzava da sei ordini di archi sovrapposti e un innovativo traforo a stella nella parte terminale della struttura.
Sei finestroni, alternati a nicchie convesse, si compongono a sinuosi costoloni che, intersecandosi, decorano e spezzano la superficie esterna della cupola.
È l’interno che, maggiormente, emoziona.
Lo sguardo viene ingannato dalla progressiva riduzione di sei differenti livelli architettonici concentrici: più alti verso il basso, più piccoli verso l’alto.
Un’illusione per una verticabilità assurda: una cupola che si allontana grazie a precisi calcoli matematici.
Una geniale architettura, una cupola traforata, un perfetto imbroglio illusionistico.
Una magia barocca che plasma la luce, la vera protagonista,
Tre zone, tre passaggi di splendore: la semioscurità che avvolge l’ingresso è le scale d’accesso alla cappella, la penombra attorno all’altare e, infine, la luce diafana nella cupola.
Un percorso di fede, un cammino che inizia nel buio del calvario per dissolversi nel bagliore della Resurrezione.
Nella cupola, protagonista il numero tre e i suoi multipli, nel ricordo della SS. Trinità e del Triduo Pasquale: tre, i gradini che sorreggono la lanterna, sei, i finestroni nel tamburo, dodici gli archi esterni.
La decorazione interna di stelle, richiamate nel pavimento, diventano metafora del cielo della notte della Resurrezione.
Nessun affresco avrebbe rappresentato tutto questo, nessuno prima di me aveva osato tanto!
Spregiudicatezza architettonica, armonia e intelletto, dialogo tra necessità estetica e perfezione illusionistica.
Luce e ombra, infinito e sorpresa.
La volta celeste racchiusa nell’infinto prodigio della mia architettura.
Dicano pure “irrazionalità” ma, per me, questa cupola è incanto della materia oltre il barocco.
Carlo Maria Pelatti


23)            JOHANNES VERMEER LA LETTERA                                                                   (04/12/2020)


LA LETTERA
La domestica, prima di lasciare la stanza, accostò la lunga tenda verde al lato del muro.
Appoggiò il vassoio delle mele cotogne sul tappeto di lana che ricopriva il lungo tavolo posto al centro della camera. Infilò la mano nella testa del grembiule e consegnò un foglio di carta, ben sigillato, alla ragazza. Un semplice inchino e, la fantesca, proseguì, altrove il suo lavoro.
La giovane lasciò il suo silenzio, scostò la tenda rossa aprendo la finestra: la luce illuminò, in un istante, quel mondo domestico.
La lunga attesa era terminata: chi era il mittente?
Aprì il foglio e le sue mani strinsero quel prezioso pezzo di carta.
Il corpo fermo, lo sguardo dentro ad ogni parola, ad ogni lettera, ad ogni riga.
Curiosità e trepidazione si impadronirono del suo cuore: nulla doveva essere perso, tutto doveva essere capito.
Quelle frasi d’inchiostro valevano tutta una vita: un appuntamento clandestino, una dichiarazione d’amore o, forse, un addio?
Ci viene in aiuto un segno: le labbra dischiuse per una lettura ad alta voce, consapevole, chiara, un leggero sorriso.
Di fronte a sé il riflesso, impietoso e veritiero,  del volto, rispecchiato nei vetri piombati della finestra.
Vetri, piombo, labbra dischiuse, luce di un giorno eterno: l’amore!
In primo piano un vassoio di mele cotogne, frutto ottenuto dall’innesto di due differenti piante di mele. Dietro alle spalle, una nuda parete monocolore illuminata dalla luce del sole.
Silenzio, concentrazione, silenzio, e poi?
Un attimo di vita quotidiana offerto allo spettatore: uno sguardo che scruta l’emozione che pervade il cuore della giovane, il suo doppio volto fermo nel tempo.
La finestra spalancata sul divenire, sul futuro: due persone, due amanti, un destino racchiuso in poche tracce d’inchiostro.
E la lettera?
Sarà strappata in mille pezzi o portata al petto per unirla al battito del suo cuore?
Ah... l’amore!
Johannes Vermeer dipinse, questo quadro, all’età di venticinque anni: una scena d’interno, soggetto caro alla tradizione pittorica fiamminga.
La luce; vera protagonista del dipinto pervade la stanza dissolvendo la gravità del l’attesa avvolta nell’assordante silenzio.
Ogni particolare viene esaltato: la ragazza (forse la moglie di Vermeer), il tappeto di lana, le tende, le mele.
Luce che svela lo stato d’animo di questa storia d’amore.
Colore; prezioso, ricco, incorrotto, usato per ottenere la massima perfezione.
Materia pura posta sulla tela in impercettibili tocchi.
Colore di rara lucentezza, colore che rapisce, stupisce, emoziona.
Arte inarrivabile.
Carlo Maria Pelatti

Johannes Vermeer
“Ragazza che legge una lettera davanti alla finestra”, 1657~1659
Gemäldegalerie, Dresda


24)                           FAUSTO MELOTTI                                                                                  (11/12/2020)


EQUILIBRIO DI ARIA E POESIA
Fausto Melotti: Rovereto (Tn) 1901 ~ Milano 1980
Fausto Melotti, il poeta della scultura del ‘900.
Sconosciuto alle grandi masse, ma ammirato dai più raffinati collezionisti nazionali e internazionali.
Le geometrie pittoriche di Paul Klee, le ricerche artistiche del periodo del Bauhaus di Lászaló Mogoly-Nagy, la musicalità delle opere di Vasilij Kandiskij, la creatività di Joan Mirò e le fantasie aeree di Alexander Calder furono compagni e stimoli di viaggio per l’artista italiano: come contrappunto, la fantastica materia forgiata da Lucio Fontana.
La missione di Fausto Melotti?
Far emergere la bellezza, farla riverberare nel pensiero primario in tutta la sua semplicità e complessità.
Aria e luce attendevano, da sempre, questo atto di vita.
Essenza attraversata dalla luce, pronta a danzare nel respiro dell’aria.
Ieri come oggi, arte pura che attinge alla leggerezza e nel silenzio: condizione estatica che si sottrae allo sguardo delle tante avanguardie.
Artifici creati con fragili segni, inedite forme eteree che seducono il vento.
Qui, tempo e spazio perdono di senso.
Purezza e astrazioni, linee rette e seducenti curve: Melotti arricchisce la sua ricerca grazie alle leggi che attingono a madre natura.
Un incantesimo nell’insostenibile leggerezza del sogno.
Pieno e vuoto, penombra e iridescenza, astrattismo e natura: elementi che si fondono nella musica, nella danza.
Oscillazioni improvvise che illuminano  palcoscenico del teatro della vita.
Scultura che svanisce e riaffiora nella creatività, nella poetica, nel cuore dell’arte.
Pensieri sospesi, stoffe e fili, strisce e vellutate reti metalliche: questa la sensibile magia artistica di Fausto Melotti.
Scultura viva, mossa dall’improvviso respiro di una folata di vento.
Luce seducente che avvolge le impalpabili opere d’arte avvolte da fiabeschi racconti musicali.
Vibrazioni, incantesimi, leggerezza, fantasia: un invito al piacere, gioia per il pensiero.
Spirito colto nel vuoto quotidiano, tra conscio e inconscio: un svelato segreto d’arte offerto alla nostra emozione in un poetico equilibrio di aria poesia.
Carlo Maria Pelatti


25)                              CLAUDE MONET                                                                                    (18/12/2020)


IO E LA NEVE
1868; mi trasferii, con mia moglie Camilla e mio figlio Jan, in piccoli paese nella regione della Normandia, a Etratat.
La situazione economica familiare, la scarsa vendita dei miei quadri, mi costrinsero a vivere qui:  Etratat, un grappolo di case avvolte in una genuina quotidianità.
Qui si poteva ancora vivere con pochi franchi, accontentandosi di ciò che questa società ti offriva.
Altri amici pittori abbandonarono Parigi raggiungendomi in questo angolo di intatta natura: la nostra ricerca artistica poteva proseguire verso nuovi traguardi.
Ricordo bene: era dicembre 1869.
I vecchi del paese lo avevano detto: il vento del nord porterà la neve.
Avevano ragione.
Era ancora buio quando uscii da casa.
Presi la tela nuova, cavalletto, cassetta dei colori e mi incamminai per la strada.
La neve copriva ogni cosa: ero immerso nell’aria, intensa e fredda, dell’inverno.
Arrivò il primo timido bagliore di luce.
Mi fermai in quell’angolo di Etratat.
Credetemi: lo stupore davanti ai miei occhi.
Dovevo coglierlo subito, quella emozione, quella meraviglia, quel candore.
Un attimo d’infinito: luce, aria, cielo si fondevano una nell’altra.
Un inatteso splendore, un’alba di nuova impressione.
Dovevo svelare questa emozione, catturare la luce del cielo riflessa su questo caleidoscopio di bianchi.
Dovevo rubare l’intimo segreto celato in quella natura, affinché ogni cristallo di neve potesse riverberarmi tutta la sua bellezza.
Il paradiso era lì, davanti a me: io Claude e tu prodigio, io pittore e tu maestra, io uomo e tu seduzione di eterna natura.
Un inverno che scioglie ogni mia certezza.
La sfida era iniziata.
Il miracolo dell’inverno riscaldava la mia creatività.
Presi la tavolozza: mi accorsi che i colori che avevo sempre usato, ora, erano inadeguati, sbagliati.
Come potevo dipingere quella luce?
Luce davanti a me, dietro me, luce che mi avvolgeva, mi seduceva, mi umiliava ed esaltava.
L’ombra azzurra, ai piedi della siepe, scivolava, piano piano, sopra ai cristalli di ghiaccio trasformando, questa infinità, in un tappeto di emozioni.
Ecco cosa si prova a vedere la neve sotto il cielo del paradiso.
Un paesaggio al limite della evanescenza.
Pennellate sciolte, rapide: nessuna attenzione al dettaglio perché doveva emergere l’impressione, l’emozione, ciò che scuote l’anima.
Qualche tocco di rosso per colorare i comignoli e il bruno, degli arbusti e degli alberi, per disegnare la prospettiva del villaggio.
Mio Dio: quanta bellezza!
Mi guardai attorno: ero l’unico presente  sulla strada.
Etratat era deserta, tutti chiusi in casa: troppo freddo.
All’improvviso un canto: una gazza si posò sul legno del cancello, davanti a me.
Claude Monet presentò il quadro, intitolato “La gazza”, ai giurati del Salon parigino, del 1869: opera rifiutata.
Carlo Maria Pelatti

 

26)                            GIOVANNI SEGANTINI                                                                        (24/12/2020)

 EFFETTO DI UNA LANTERNA

Giovanni Segantini: uno dei più grandi pittori italiani del XIX sec.
Geniale e rivoluzionario esponente artistico: portò la corrente artistica “Divisionista” ad eccelsi livelli di puro naturalismo, di pura magia.
“Le due madri”, capolavoro d’intimità: un soggetto pagano elevato a simbolo d’eterno amore.
Era giunto il tempo di pitturare il ciclo della vita: maternità umana e maternità animale poste sullo stesso piano.
Era giunto il tempo di esaltare la vocazione della donna: angelo, fonte e custode della vita.
Donna, non Madonna.
Donna vestita, non di un regale abito di prezioso broccato, ma con una umile tunica.
Non un’aureola sulla testa, ma un fazzoletto per trattenere i capelli.
Donna che non siede sul trono, ma su uno sgabello da mungitura.
Donna ritratta non in uno spazio glorioso e aureo del paradiso, ma colta in una umile stalla.
Non tappeti, ma paglia sul pavimento.
Donna che al termine di una lunga giornata si arrende ad una momento di stanchezza.
Una madre che non abbandona la sua creatura, neppure nell’improvviso appisolarsi: le sue mani sono salde, premurose, rassicuranti.
Mani che contrastano con il piccolo braccio del neonato abbandonato, anch’esso, al sonno.
A vegliare c’è un’altra madre, intenta a cibarsi di fieno.
Anche lei fiera, mentre il suo piccolo dorme sereno sullo strame ricoperto di paglia.
Atmosfera intima, calda: elogio inscindibile di vita e natura.
Era giunto il tempo di affrontare la luce.
Luce non esterna ma artificiale: luce ambrata proveniente da un lume ad olio di una lampada fissata ad una catena appesa al soffitto della stalla.
Un nuovo splendore che gioca nella dialettica di luci e ombre di un ambiente chiuso.
Luce che esalta il sentimento dell’amore, che accarezza i volti umani ed esalta a monumento la mucca.
Era giunto il tempo di usare una tecnica nuova: colori non più mescolati sulla tavolozza, ma applicati, sulla tela, in modo diviso, puro, uno accanto all’altro.
Sarà l’occhio dello spettatore a fonderli insieme per portare, questa innovazione, allo stato di stupore.
Pennellate precise, minute, raffinate.
Pennellate cesellate, non da un orafo, ma da un pittore: Giovanni Segantini.
Era giunto il tempo dell’arte Divisionista, dell’arte al servizio della natura, della vita.
Era giunto il tempo.
Nulla poteva essere più come prima.
Il quadro “Le due madri” fu esposto, per la prima volta, alla Triennale di Milano del 1891, riscuotendo un notevole successo di critica e pubblico.
Buon Natale.
Carlo Maria Pelatti

 


Carlo Maria Pelatti


27)                         ELISABETTA SIRANI                                                                                (31/12/2020)

 

UNA PITTRICE, TRE VIRTÙ
Elisabetta Sirani:figlia d’arte, primogenita di quattro figli.
Il padre, Giovanni Andrea Sirani, fu l’allievo prediletto del pittore Guido Reni.
Elisabetta, precoce talentosa, scelse di svolgere il suo apprendistato nella bottega d’arte paterna: si diceva che “dipingesse da homo”.
In breve tempo fondò la prima scuola del disegno, in Europa, aperta alle donne, procurandosi la stima della nobiltà bolognese e dei suoi colleghi.
Bologna: seconda città, per importanza, dello Stato Pontificio, sede della più antica università del mondo, fondamentale centro culturale, politico e sociale.
Questa era la città che lodava Elisabetta, pittrice che andava affermandosi in un mondo dominato da soli uomini.
Elisabetta sapeva che in città era presente il rampollo di casa Medici, Cosimo III, figlio di Ferdinando II de Medici, accompagnato dal Marchese Ferdinando Cospi, mediatore tra lei e il Gran Duca di Toscana.
Era il 13 Maggio 1664: i due nobili fecero visita nello studio della Sirani per vedere lo stato d’avanzamento del quadro richiesto.
Per nulla intimorita, la pittrice dipinse, in loro presenza, la figura del bambino che viene allattato al seno della Virtù della Carità.
Il Medici lodò la sua bravura, al punto tale di premurarsi, personalmente, della fornitura del prezioso lapislazzulo, affinché l’abito della Virtù della Giustizia apparisse ancor più fastoso.
Nell’agosto dello stesso anno, Elisabetta terminò l’opera e, nel mese successivo, fu inviato a Firenze.
Ricevette, come ricompensa, un prezioso crocifisso tempestato da cinquantasei diamanti: il gioiello fu esposto all’interno di una bacheca all’interno dello studio, perché fosse ammirato dai visitatori, in special modo, dalle nobildonne, al fine di avvalorare, maggiormente, la bravura artistica della Sirani.
Dipinto solenne, stile sontuoso, pennellate fluide e colore prezioso: queste le principali caratteristiche del capolavoro di Elisabetta.
Il soggetto: tre Virtù, una teologale, la Carità, e due cardinali, la Giustizia e la Prudenza.
La Carità, attorniata dai tre bambini, richiama l’attenzione della Giustizia, avanzando la sua richiesta.
La Giustizia alza la spada, simbolo di forza e potere, in atto di colpire e separare il giusto dall’ingiusto, mentre lascia scivolare la bilancia, simbolo di equità, a lato della gamba.
Le viene in soccorso la Virtù della Prudenza invitandola a guardare, prima di agire, nello specchio, simbolo e monito di “conosci te stesso”.
Tre Virtù, tre pregi, tre doti che dovevano essere presenti nel governo mediceo.
Sii prudente Giustizia: prima di colpire valuta, con l’intelligenza è verità, il tuo agire perché devi irradiare, della tua luce, il cammino dell’uomo virtuoso.
Non c’è Giustizia senza il soccorso della Prudenza.
Non c’è Carità senza Giustizia.
Non c’è vero uomo senza il favore delle Virtù.
Nel passato vari artisti avevano rappresentato le Virtù sedute in troni: Elisabetta le pone una accanto all’altra in un serrato dialogo di atteggiamenti, sguardi e azioni. Dipinge, alle loro spalle, un fondo neutro, scuro affinché la nostra attenzione si concentri alle sole tre Virtù.
Dov’è il tocco geniale e femminile della Sirani?
La firma, con le lettere distribuite pitturate all’Inter dei preziosi bottoni della veste della Giustizia, e la data, 1664, posta nella spilla ferma mantello.
Tre Virtù, tre nobili dee, tre eterne bellezze.
Elisabetta Sirani: genio, pittrice, donna indipendente, emblema, indelebile, nel mondo dell’arte.
Il lei grazia, coraggio e carattere si manifestano nella più alta espressione di  eleganza artistica: i suoi quadri, le sue opere, ne danno immortale testimonianza.
Carlo Maria Pelatti
Elisabetta Sirani
“Giustizia, Carità e Prudenza”
1664
Villa Tosi-Bellucci, Sede del Comune di Vignola - Mo -


28)                                  VAL D'ORCIA                                                                                         08/01/2021

ARTE E PAESAGGIO
Nessun quadro può contenerlo.
Nessuna opera d’arte, affascinante o ingannevole che sia, può imitarla.
Nessun pittore può essere così audace da osare tanto.
Troppo difficile!
Come scegliere un dipinto, o un’opera d’arte, che abbia affrontato il tema del paesaggio?
Decisione ardua.
Il paesaggio: nel corso dei secoli, tutte le correnti artistiche hanno affrontato questo eterno soggetto.
Paesaggio naturale, ridente, pittoresco, melanconico, incantevole.
Paesaggio composto da montagne, piani, boschi, corsi e specchi d’acqua, borghi e castelli.
Panorami mozzafiato, vedute magiche che catturano la nostra emozione trasformandola in eterno ricordo.
Pura estetica.
Paesaggio: argomento complesso, dalle infinite riflessioni filosofiche e artistiche.
Ad esso si aggiunge il sostantivo “tutela”: tutela del paesaggio.
Premura, difesa, salvaguardia della ricchezza del patrimonio più prezioso che l’uomo per la sua sussistenza, per il suo benessere.
Tutelarlo significa riconoscerlo, proteggerlo, esaltarlo perché unico ed irripetibile.
Paesaggio inscindibile dell’espressione artistica: l’Italia primeggia grazie ai suoi cinquantaquattro siti Unesco.
Non abbiamo rivali nel mondo.
Siamo testimoni ed eredi della ricchezza estetica, architettonica e paesaggistica senza eguali.
Ammirare la natura è anche contemplazione del paesaggio.
Natura e paesaggio intimamente armonizzati e legati all’esistenza dell’uomo: disprezzarli significa calpestare l’essenza stessa della vita.
Ammirare il paesaggio mediante dall’arte: tanti artisti si sono confrontati, immedesimati, persi e, infine, convertiti ad esso per svelarne i più occulti segreti.
Premura verso la natura nella ricerca del delicato equilibrio tra vita e bellezza.
Paesaggio plasmato dalle mani di uomini che hanno amato la terra per trarne il giusto sostentamento per la loro esistenza.
Natura e paesaggio: sognare davanti ai capolavori di Giotto, Ambrogio Lorenzetti, Leonardo da Vinci, Raffaello, Correggio, Giorgione, Tiziano, Canaletto, Turner, Corot, Monet, Sisley, Van Gogh, Segantini... solo per citarne una minima parte.
Quante persone, qualche anno fa, sono corse al lago d’Iseo per vivere l’opera di Christo?
Ci sarà un motivo?!
Carlo Maria Pelatti
 

 

 


29)                     TANCREDI PARMEGGIANI                                                                         (15/01/2021)

TANCREDI PARMEGGIANI, ARTISTA
Marguerite Guggenheim, conosciuta come Peggy, nipote di Salomon R. Guggeheim, si trasferì, nel 1946, a Venezia, acquistando l’incompiuto Palazzo Venier dei Leoni sul Canal Grande.
In questa città, in pieno fermento artistico, incontrò, nel 1952, un artista divenuto uno tra i più rilevanti sulla scena culturale italiana del II dopoguerra.
Tancredi Parmeggiani: fu definito, dalla stessa Peggy, il più importante pittore dopo il futurismo.
Studiò presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, divenendo amico di Emilio Vedova: da sempre, ammirò le opere di Jackson Pollock e, soprattutto, di Piet Mondrian.
Protégé (beniamino – favorito) della stessa magnate americana, ebbe uno studio all’Interno del Palazzo Venier promuovendone mostre e vendita ,delle sue opere, ai più importanti collezionisti d’arte.
Nel 1952 sottoscrisse il “Manifesto Spazialista”, redatto da Lucio Fontana.
A Parigi conobbe l’opera letteraria di Sartre, "l’esistenzialismo" e le nascenti contestazioni studentesche.
Usò la sua arte per denunciare la follia umana che scatenò le guerre in Vietnam, Indocina e Algeria, la distruzione di massa causata dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki e dalla guerra fredda tra USA e URSS.
Tancredi Parmeggiani: uomo affascinante, bello, geniale, sregolato, istintivo.
Poeta della frammentazione del segno: si servì del ‘punto’ per scrivere il suo originale alfabeto artistico, fatto di astratta sensibilità alternata da creativa e commovente euforia.
Il ‘punto’: primordiale segno grafico circondato dal vuoto, base di ogni futura immagine, di ogni prossima figura.
Punto e punti tramutati in preziosi bilanciamenti cromatici senza eguali.
Con lui, la discrezione dello spazio, si arricchì di inedito respiro, di soffi naturali colti nel mondo.
Apparente semplicità di un’ariosa leggerezza destinata a descrivere un’arte nuova, la sua arte fantastica.
Celebrò l’inarrestabile fluire del l’infinito, disegnò la magia dello spazio, misurò il primordiale respiro e denunciò le violenze che ne sconvolgevano l’equilibrio.
Gestualità rapida per evocare lontane galassie sospese nel vuoto: incanto della forma, stupore del primo battito della vita.
Colore seducente, spirituale per descrive una luce che emerge dal cuore dell’opera stessa.
Irrequieta emozione di un divenire inarrestabile di saturazioni di superfici: sfida, senza fine, verso l’incommensurabile.
Roma 1964.
Tancredi, dopo l’ennesimo ricovero ospedaliero a causa problemi neurologici, ritornò nella sua stanza d’albergo sito in Campo de Fiori.
All’alba di un giorno d’autunno uscì e si incamminò verso il Tevere: si suicidò gettandosi da un ponte.
Aveva 37 anni, la stessa età di un’altro genio dell’arte, Raffaello Sanzio (Urbino 1483 - Roma 1520), Tancredi Parmeggiani (Feltre 1927- Roma 1964).
Un genio, una meteora,  che illuminò, con la sua parabola di poesia, il mondo dell’arte, il nostro mondo che cerchiamo.
Carlo Maria Pelatti


30)                            MEDARDO ROSSO                                                                                 (22/01/2021)

 

 

OLTRE L’IMPRESSIONE: LA “RUFFIANA”
Medardo Rosso
Ruffiana: equivalente popolare letterario di “mezzana”.
Ruffiana: strepitosa scultura di Medardo Rosso chiamata anche “Vecchia”, “Megera”, Maquarelle”(pappona) e “Vieille femme au soleil”. (vecchia signora al sole)
Tanti nomi per un capolavoro della scultura italiana di fine ottocento.
Tema caro che trova, nel “Ritratto di vecchia” del Giorgione (1506, Gallerie dell’Accademia, Venezia), un importante vertice di sequela e confronto.

Estetica del naturalismo che attinge alla corrente artistica-culturale della “Scapigliatura” milanese dove lo sguardo al proletariato urbano, popolato da persone umili, risultò di fondamentale importanza.

Ruffiana: fantastica denuncia artistica di Medardo Rosso della transitorietà del “Tempus breve est”, (il tempo è breve) inesorabile realismo che si distinse dall’imperante tradizione tardo romantica presente nell’arte italiana.
Realismo che trovò ragione nei lineamenti iperrealisti nei volti delle statue dei gruppi religiosi dei Sacri Monti, presenti nelle terre piemontesi e lombarde.
Deformazione del realismo visto negli studi fisionomici e nelle caricature di Leonardo da Vinci.
Un ricco bagaglio culturale che gli permise di plasmare la luce, l’istante, l’attimo, l’impressione, la poetica di un sarcastico sorriso.
Un sussulto sospeso nel vuoto, una risata incorniciata da rughe decrepite, labbra dischiuse al ghigno e ripiegate sulle gengive sdentate.
Occhi chiusi, confusi nelle altre grinze della scheletrica faccia.
Uno sguardo sulla vanità resa al limite dell’ironia: perfetta esecuzione fatta a regola d’arte, oltre l’impressione.
Cera: materia cara e distintiva dell’opera artistica di Medardo Rosso.
C’era: sostanza organica, corruttibile come il soffio della vita, come la bellezza di un fiore.
Cera, che prende forma attorno ad un pulsante cuore di gesso.
Cera, che riflette la luce e si lascia sedurre da essa, riverberando nuovi incanti.
Luce che esalta l’attimo, che illumina la magia dell’immaterialità, che celebra il genio di Medardo Rosso.
Luce, ombra e natura: la poesia di una schietta risata di una ruffiana.
Carlo Maria Pelatti
Medardo Rosso
“Ruffiana”, 1883
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Roma


31)                          TIZIANO VECELLIO                                                                                (29/01/2021)

ACCORGERSI DELLA LUCE: TIZIANO VECELLIO

Venezia, incanto tra acqua e cielo, città sedotta dal riverbero di mille colori: Serenissima arricchita da preziosi tesori e inestimabili capolavori d’arte.
Venezia e il suo pittore: Tiziano Vecellio.
Un quadro: “ Il martirio di San Lorenzo”, conservato all’interno della chiesa di Santa Maria Assunta, detta dei Gesuiti.
Spettacolare dipinto di soggetto notturno, nato dopo una lunga gestazione durata quasi dieci anni.
“Il martirio di San Lorenzo”, il più romano di tutti i quadri dipinti dal cadorino.
 (Pieve di Cadore  1488 – Venezia27 agosto 1576)
Luce: vera protagonista dell’opera, sapientemente usata tra dramma e tensione per far risaltare l’alternarsi di chiarori e ombre.
Bagliori sprigionati dal fuoco, luce che brilla, splende e si espande.
Luce che sconfigge le tenebre, emblema dello stato d’ignoranza, della condotta malvagia che lotta contro la venuta del vero e unico splendore.
Chiarori provenienti dalle fiamme del fuoco alimentato sotto la graticola, fonte che illumina, dal basso, il primo piano, facendo entrare, il nostro sguardo, all’interno della scena.
Fuoco delle fiaccole e lampo divino che squarcia l’oscurità del cielo.
Luce che risalta i vorticosi corpi michelangioleschi dei carnefici, intenti alla cinica esecuzione.
Fulgori rilucenti sulle armature spagnole dei soldati dislocati nello spazio architettonico romano.
Gemme luccicanti posate sui riccioli dei capitelli corinzi e sui fusti del prospettico colonnato.
Arditi turbini visivi dove Tiziano bruciò ogni verità del classicismo artistico giunto a lui.
Luce che illumina contorni trasfigurati, sgranati, instabili, vaghi.
 Luce testimone dell’atto di fede del martire Lorenzo, stimato esempio della dottrina tridentina.
Il buio del cielo squarciato dall’incontenibile fulgore divino che fende l’oscurità pagana per tendersi verso la mano aperta della vittima cristiana.
Tensione, dramma, fede, fiamme, colori: teatro di luce e umiliata oscurità.
Sguardo di Tiziano sugli antichi fasti romani, sfoggiati nel regno del colore: Venezia.
Il mondo dell’arte si inchinò al cospetto di questo capolavoro.

Carlo Maria Pelatti

Tiziano Vecellio
“Il martirio di San Lorenzo”
1548c. - 1558c.
Chiesa dei Gesuiti, Venezia


32)                                 GINO COVILI                                                                                       (19/02/2021)

 Gino Covili
(Pavullo nel Frignano 21-03-1918 ~ 6-05-2005)
Guardate un quadro di Gino Covili, uomo e pittoresco del Frignano.
Schivo alle leggi della pittura, aspro e polemico contro di essa, mistico verso la bellezza che lacera il nostro perbenismo estetico.
La sua terra è abitata da uomini e donne, da santi ed eroi, da persone che sfidano la neve dell’inverno e il caldo del sole estivo.
Nessuna sorpresa: l’uomo del Frignano è autentico come le radici dei loro castagni che s’inabissano nella madre terra alla ricerca della linfa della vita.
Il Frignano: fantastica trasfigurazione ed esasperazione della bellezza della natura, ideale palcoscenico dell’esistenza.
Le tele di Gino Covili diventano inni sacri e profani, quadri pitturati con gli occhi di chi rincorre l’emozione concessagli da Dio.
 

I volti dei suoi eroi, dischiusi dal rantolio di bocche semiaperte, sono coronati da mani destinate, da sempre, alla conquista della vita: stigmatizzate dal colore della miseria ma, rese nobili dalla dignità, dalla realtà quotidiana.
Dita: disperati spettri che lottano per vivere  a stretto contatto con la natura, nella natura, nel ripetersi di gesti uguali, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione.
Quadri assordanti, poetici, testimoni della fatica dell’uomo che guarda a Dio.
Mani dure, legate al destino della terra.
Mani mistiche, eredi di lotte contro la fame, contro il dolore, ma aperte alla gioia di ciò che gli viene donato.
Mani arse dal sole, tagliate dal freddo, guarite dall’amore di una donna, di un uomo,  anch’essi legati allo stesso destino.
Mani che pensano, che raccontano storie, leggende, favole del Frignano.
Mani forgiate dal gravoso lavoro e dall’onore.
Mani che l’uomo pone davanti a se, che porge all’amico, che spezzano il pane per sfamare la voglia di vita.
Mani mosse dal gemito del cuore, che si muovono nel buio, pugni rivolti alla superficiale vanità.
Mani che ci interrogano, ci obbligano a rispondere al senso della vita, della verità, della gioia.
Mani, identità e memoria degli eroi del Frignano: ciò che è nascosto le mani lo rivelano.
Le mani di Gino Covili: uomo che  ha sfidato la pittura, che ha esaltato, nell’arte, gli angeli del Frignano.
Carlo Maria Pelatti
Gino Covili
“Il Mietitore”, 1972
Tecnica mista, Coll. Coviliarte


33)                      AMEDEO MODIGLIANI                                                                           (16/04/2021)

HANKA ZBOROWSKI

Amedeo Modigliani (Livorno 12 luglio 1884 ~ Parigi 24 gennaio 1920): definito l’ultimo dei pittori maledetti, l’ultimo autentico bohémienne nella Parigi di Montparnasse, il bell’italiano,  “l’angelo dal volto severo” vestito con la giacca di velluto a coste e il fazzoletto rosso legato al collo.
La sua passione: l’arte.
La sua miseria: l’alcol e hashish.
Si nutrì di disperazione, successo e contemplazione del sublime.
Modigliani ritrae Hanka, moglie dell’amico e poeta Leopold Sborowski, dal 1916 suo mecenate e mercante d’arte.
Hanka, modella ritratta al pari delle più importanti nobildonne toscane: Modigliani attinge ai capolavori della ritrattistica rinascimentale.
Hanka è tramutata in sogno, intima poesia e sensualità, ritratto di sintesi e purezza di forme: un capolavoro.
È stato sufficiente un attimo per dipingere la sua eternità, la sua eleganza senza tempo.
Leggiadre  linee che sublimano il carattere della modella: conferma del classicismo della posa e massima raffinatezza di un’immagine realistica.
Hanka non svolge nessuna azione, non compie nessun gesto.
Non indossa nessun accessorio: ricerca del silenzio per la contemplazione del volto, equilibrio di delicata bellezza.
Pelle luminosa, levigata, come le superfici marmoree delle sue teste scolpite qualche anno prima: sovrappose, nei suoi ritratti, valori scultorei e valori pittorici.
Un tocco leggero attinto ad una tavolozza dai colori chiari, neutri, omaggio alla monocromia cézanniana.
Capelli corvini che incorniciano un ovale allungato che racchiude labbra rosse segnate da un lieve sorriso.
La modella indossa una camicia bianca, unica fonte di luce che illumina il quadro.
Ciò che circonda la donna, per Modigliani, diventa inutile: dipinge uno sfondo indefinito, silenzioso, senza prospettiva affinché si colga, appieno, la sua arte destinata all’incorruttibilità del tempo.
Collo sinuoso, senza fine, al limite del decorativo, memore delle deformazioni di altri artisti: Botticelli, Parmigianino, El Greco.
Perfetta semplicità che nasconde un segreto: occhi ravvicinati al lungo naso, privi di sclere, iridi e pupille, orbite oculari rese con due differenti toni di grigio: ingresso privilegiato per conoscere l’intima psiche di Hanka.
Immagine interiore, ritratto nel ritratto: ricerca d’origine simbolista, novità mai raggiunta, fino ad allora, nel mondo dell’arte.
Ciò che non si vede, Modigliani lo svela e dipinge.
La fisionomia ricopriva un ruolo secondario: per gli altri pittori era forma e colore, per lui, vita.
Da sempre amò l’arte e non volle prostituirla con nessun’altra chimera.
Un credo artistico, inflessibile, cresciuto nella ricerca della filosofia esistenziale unita alla conoscenza del misticismo, della metafisica, della cabala e dello spiritismo.
Il pensiero: ecco la novità, la verità che Modigliani  racchiude nel ritratto di Hanka, apparente immobilità circondata dal suono del silenzio, note che esaltano questa ieratica divinità.
Carlo Maria Pelatti


34)                            GIACOMO FAVRETTO                                                                              (30/04/2021)

“IL SORCIO”

Un’immagine degna della commedia di Carlo Goldoni.

Nel settecento fu il pittore veneziano Pietro Longhi a raccontare la vita, di ogni giorno, della sua città: nell’ottocento il testimone passò a Giacomo Favretto (Venezia 11 Agosto 1849 - 12 Agosto 1887), divenendo uno tra i principali protagonisti del panorama pittorico  nazionale.
L’episodio è colto in una stanza di un appartamento collocato in un sestiere popolare di Venezia, luoghi ben conosciuti dal pittore: la sua estrazione sociale proveniva da una famiglia di basso ceto; Favretto, da bambino, si procurava piccoli guadagni ritagliando pizzi per le scatole di dolcetti.
Un’improvvisa caccia al topo: il protagonista non si vede.
Entrato, furtivamente, dalla fessura della porta lasciata, inavvertitamente, aperta, scatena il terrore e le urla delle tre ragazze che, arrampicate sulle sedie, seguono, a debita distanza, la cattura dell’intruso.
L’ironico dramma si stempera nella maestria pittorica di Favretto: straordinario realismo unito alla luminosità lagunare, luce aggiornata dopo il viaggio a Parigi, dove conobbe l’opera dello spagnolo Mariano Fortuny e del francese Jean-Louis-Ernest Meissonier.
Stesura pittorica vivace, frammentata, inedita nel panorama pittorico veneziano.
Bravura nel creare le vaporose gonne verdi turchine e nere, le camicie delle ragazze ravvivate dai colorati foulard che decorano i loro colli.
Una stanza apparentemente vuota ma disseminata da preziose nature morte: superba quella esposta sul cassettone dove, nella penombra, posa una brocca bianca di ceramica e una lampada ad olio in ottone.
Sul pavimento alla veneziana, una splendida stoffa ricamata, la paglietta del ragazzo, le ciabatte della signorina abbandonate, in tutta fretta, ai piedi della sedia, un drappeggiato telo bianco, punto di riverbero della luce, lasciato tra pavimento e sedia, la scopa di saggina, il cui manico diviene linea direttrice del quadro disegnando, con il manico della scopa del ragazzo, un immaginario triangolo scaleno.
Sul lato destro altro saggio, fantastico, di virtuosismo pittorico: pezzi di tessuto appesi ad un chiodo della parete.
Il vuoto, nella stanza, separa le due narrazioni: a destra, le chiassose fanciulle, a sinistra, il bambino intento alla cattura del sorcio.
La parete è interrotta dall’ombra verticale della porta lasciata socchiusa, causa narrativa dell’episodio.
Una citazione: l’indice della mano destra della ragazza che indica il punto dove si è nascosto il topo, parodia e omaggio al particolare del capolavoro di Michelangelo “La creazione di Adamo” affrescato nel soffitto della Cappella Sistina.
Il gesto della mano di Dio, che dona il respiro della vita ad Adamo, qui, viene mutato: eliminare l’intruso.
Milano, settembre 1878: “Il sorcio”, del pittore Giacomo Favretto, riscosse grande plauso all’Esposizione delle Opere di Belle Arti del Palazzo di Brera.
Fu acquistato al prezzo di 2650 lire.
   Carlo Maria Pelatti

Giacomo Favretto
“Il sorcio”
1878, Olio su tela

Pinacoteca di Brera - Milano


35)                        GIOVANNI FATTORI                                                                              (14/05/2021)

 

 

LA ROTONDA DEI BAGNI ‘PALMIERI’
Giovanni Fattori
Il coperchio di una scatola di sigari toscani: uno spazio aperto all’infinito, 12 per 35 cm.
Colore applicato sulla superficie del legno senza preparazione sottostante.
Un piccolo, grande, capolavoro dell’arte dell’Ottocento italiano, manifesto della pittura macchiaiola.
Essenzialità del linguaggio, immediatezza contrapposta al meditato studio: una pennellata che ordina colori puri.
La firma, con nome abbreviato ‘Gio.’ accompagnata dalla data ‘1866’, poste, con discrezione, all’estremo dell’opera.
Una quieta atmosfera, una luminosa giornata, di mezza stagione, passata vicino a Castiglioncello, presso i “Bagni Acquaviva”, di proprietà di Giuseppe Santi Palmieri, noti come “Bagni Palmieri”: sette donne sedute a godersi la brezza del vento riparandosi, dai raggi del sole, sotto ad un dehor, sul pontile del lungomare di Livorno, luogo di moda, frequentato dalla borghesia toscana e internazionale.
Donne, intente nel loro bagno d’aria e di mare, abbigliate alla moda: lunghe gonne vistose, cappelli per proteggersi dai raggi del sole e mantelline per ripararsi dalla brezza primaverile del vento.
Le figure sono rese senza dovizie di particolari: le vesti senza drappeggi, i volti privi di occhi, nasi, bocche.
Volumi nitidi, pennellate precise, separate tra loro.
Le vesti delle signore: differenti tonalità chiare, intervallate a macchie di colore scuro che separano la schiuma di sottili onde del mare azzurro che si infrangono sugli scogli.
Accostamenti cromatici basati sul principio della complementarietà.
Meticolosa ripartizione delle fasce del colore: due differenti strisce di luminoso marrone, l’ocra dell’ombra della tenda esposta al sole e la sua ombra sul legno del molo.
Luce bianca protesa sull’orlo estremo della terrazza, esposta al sole, in contrasto al turchino delle acque.
A destra, il mantello di una donna: una macchia rossa, unica eccezione apportata sulla tavolozza di Fattori.
Sullo sfondo, il bruno dei monti a ridosso del mare.
Un panorama orizzontale che contrasta con le linee curve del profilo delle montagne, del tendone e della sua ombra.
Freschezza, equilibrio, forma, luce, ombre, paesaggio e piani prospettici: ecco il miracolo.
Preziose tarsie colorate per un risultato di estrema bellezza.
Basta poco per evocare il tanto!
Carlo Maria Pelatti
Giovanni Fattori

“La rotonda dei Bagni Palmieri”
1866, Olio su legno
Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Pitti, Firenze

36)                                MARC CHAGALL                                                                                   (28/05/2021)

 LA COPPIA SOPRA SAINT-PAUL

Amare, volare via: librarsi perché innamorati.
Raccontare ciò che non si può dire: la pittura può permetterlo.
Marc e Vava: amore e cosmo si compenetrano, stretti l’uno all’altra.
Corpi trasformati in spiriti liberi nella risoluzione immateriale.
Due amanti divenuti arcobaleno, per raccontare un abbraccio che si dischiude all’amore.
Cancellato il peso dell’abitudine terrena per volare verso il cielo, lasciando il borgo di Saint-Paul al suo destino.
Evanescenti come il cosmo assoluto, dove il reale sfugge all’immaginazione.
Un universo altro dal quotidiano, dagli altri: due amanti pronti a sbordare verso l’infinito, oltre i limiti della tela, oltre il velo degli occhi per sottrarsi, per sempre, al nostro sguardo.
Li accoglie un palcoscenico turchino, lo stesso colore di cui, ora, sono raccontati dallo stesso Chagall.
I loro piedi, ancora per un poco, sono dipinti con i colori del rubino, del fuoco, della passione, quel calore che custodisce il loro villaggio di partenza.
L’amore protetto da una creatura altra: un cavallo azzurro che sorride al sole, che vola con loro, anch’esso sogno estraneo alla storia.
Una tavolozza attinta dall’iride del paradiso.
Vicino all’astro, un uomo di luce: un angelo? Chagall?
Marc e Vava: una favola colorata che si libra nell’aria, nell’Eden; un’epifania senza fine, perché vittoria sulla ragione umana.
La sacralità dell’amore oltre i colori, oltre la forma, oltre il desiderio di un attimo.
Eterno splendore iconico, follia di dolcezza, di bellezza perché sbocciata dal desiderio di inscindibile unità.
Marc e Vava: Dio li ha tramutati in angeli perché perfetti l’uno per l’altra.
Storia d’amore, di dolcezza, di sogno; non esiste materia utile per trattenerli con noi, il loro destino è oltre: solo il sole potrà illuminare la loro bellezza, il loro incanto.
E noi?
Rimaniamo nel regno dei fiori che infuocano lo spazio lasciato vuoto dai due angeli.
Fiori che uniscono terra e cielo, fiori che testimoniano la dolcezza degli innamorati: un distillato di gioia, viva, vera, unica, irripetibile, resa immortale dall’alchimia del colore, della pittura.
Marc e Vava: un sogno fuori dal tempo, una favola che non conosce miseria umana.
Un quadro oltre la storia, oltre i confini umani, oltre l’amore.
Chagall: uomo, pittore, sognatore, uomo innamorato.
Non parlate di rappresentazione: l’arte ha compiuto il suo destino.
Carlo Maria Pelatti
 
Marc Chagall
“La coppia sopra Saint-Paul
Olio su tela
Coll. Priv.